Irpinia quarant’anni dopo: mi ricordo che noi c’eravamo, ma più di qualcun altro forse no

24 Novembre 2020
Irpinia quarant’anni dopo, rimpianti, ricordi e rabbia, per quello che fu e che è stato poi fatto
Testo e foto Maurizio Ceccaioni
Domenica 23 novembre 1980, era quasi l’ora di cena e nel mio appartamento al sesto piano nello storico quartiere romano della Garbatella, stavo vedendo la sintesi Rai di Juventus-Inter. D’improvviso, anticipata da un rumore sordo come di tuono, arrivò quella terribile scossa di terremoto che cambiò i miei programmi pigri per quella serata e la vita di molti di noi.
Oggi sono passati 40 anni da allora, ma la ferita rimane sempre aperta e ieri sera su Rai 2, vedendo uno speciale sul terribile cataclisma che colpì una delle parti più povere del nostro Paese, i ricordi mi sono saliti in gola riportandomi indietro nella memoria. A quei tempi, quando solo a camminare sul mare di macerie speravi di non mancare di rispetto a chi, forse, stava ancora lì sotto e la disperazione negli occhi di adulti e bambini.
Come non ricordare che in casa sembrava di stare su una barca in mezzo al mare agitato, con l’armadio che oscillava paurosamente. Durò 90 secondi, un lungo, interminabile minuto e mezzo in cui, pur sentendoti impotente, si dovette decidere cosa fare e come. In strada e dalle case le urla della gente in preda al panico, mentre si accalcava incoscientemente sotto i palazzi. Decisi di rimanere lì e, quando tutto passò, il primo pensiero fu: «Chissà dov’è successo e come sta quella gente».

Il ‘dove’, lo capimmo approssimativamente dai notiziari, ma sulle condizioni della gente, c’era solo da intuire e sperare. Perché la scossa fu del X grado della Scala Mercalli (che era quella in uso allora), valutato poi di magnitudo 6,9 della Scala Richter. Molto più forte di quello del Friuli del 1976 (6,5) e di quelli successivi: Umbria e Marche del 1997 (6,0); L’Aquila 2009 (5,9); Amatrice 2016 (6,0).
Dalle informazioni che arrivavano con il contagocce, si seppe che i principali comuni interessati erano compresi in una vasta area tra Campania e Basilicata. L’epicentro fu individuato tra Conza della Campania, Teora e Castelnuovo, ma tra i tanti che ebbero i danni maggiori ci furono anche Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Torella dei Lombardi, San Mango sul Calore, Laviano, Balvano.
Di certo arrivarono sul posto prima i giornalisti con le troupe televisive che i soccorsi, ad eccezione dei vigili del Fuoco e le forze dell’ordine provinciali e locali, che poco poterono fare, se non scavare con quello che potevano tra le spianate di macerie.
Allora non esisteva una Protezione Civile, nata solo dopo il 1992, ma anche senza un coordinamento centralizzato, si misero subito in moto le colonne dei Pompieri e i distaccamenti militari locali. Le strade erano interrotte, mancava la corrente, cibo e spesso l’acqua potabile. Non c’erano alloggi o tende per i superstiti e oltre, ai fuochi, niente per riscaldarsi. Delle 43 unità speciali dell’esercito addestrate a intervenire sui disastri, solo una era dislocata al sud, per cui occorsero giorni per arrivare. Poi, dai primi di dicembre, arrivò anche la neve. Se ne rese conto anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini della disorganizzazione degli interventi coordinata dal Ministero dell’Interno, che non frenò la sua ira durante una sua visita in Irpinia.

Però già dal giorno dopo il sisma principale, si era messa in moto un’enorme catena di solidarietà dall’Italia e dall’estero. Si mobilitarono subito volontari e organizzazioni sindacali, arrivati lì da tutta Italia con roulotte e caravan, tende, attrezzature e viveri. Con i primi soccorritori, arrivarono anche le squadre di tecnici Enel, dove allora lavoravo, per ripristinare le linee elettriche agli oltre 100 paesi rimasti al buio e portare un po’ di sollievo nelle tendopoli poi attrezzate nei campi di calcio o in campagna. Io vi arrivai ai primi di dicembre con una colonna da Roma: tutti volontari. In due giorni eravamo stati vaccinati e, febbricitanti, eravamo arrivati a Fontanarosa, in provincia di Avellino, dove era stato organizzato il nostro campo base nel cortile di una scuola. Della mia squadra, alloggiavamo in sei dentro una roulotte, di quelle prese nei nostri circoli ricreativi del dopolavoro. Per mangiare si andava dove e quando era possibile.
Ricordo le continue scosse che si susseguirono per giorni a tutte le ore, quelle macerie che avevano seppellito tutto e tutti, chiese e case squarciate. Allora non era come oggi che coi cellulari si fotografa e si mette in rete di tutto, senza nemmeno pensare alle conseguenze di quell’immagine postata. Io avevo con me la macchina fotografica sempre nello zaino, ma non sono riuscito nemmeno a tirarla fuori per fotografare la disperazione della gente, che brancolava lungo strade intasate di calcinacci e mezzi di soccorso, coi vestiti laceri e impolverati. Come pure le cataste di bare piene e vuote, che s’incontravano ogni tanto accatastate; o chi stava mettendo a repentaglio la sua stessa vita, come i nostri eroici Vigili del Fuoco tra quelle case distrutte alla ricerca di persone. Furono oltre 2.700 le vittime e migliaia i feriti.

Con Patrizio – che oggi non c’è più – ero stato a salutare mio zio che con il distaccamento dei Vigili del Fuoco di Roma stava a Sant’Angelo dei Lombardi. Al ritorno si era fatto buio e senza luci e indicazioni ci siamo persi senza possibilità di comunicare, navigatori o telefonini, ammesso che in quella situazione avessero poi funzionato. Mentre già scendeva la nebbia, lungo strada un cartello che indicava ‘Stazione di Conza della Campania’. Credendo fosse quella dei treni, abbiamo preso quella direzione, sperando d’incontrare qualcuno. Invece cominciammo a salire, tornante dopo tornante fino a ritrovarci molto in alto, in una piazzetta desolatamente buia. Stavamo facendo manovra per tornare indietro, quando i fari inquadrarono prima dei manichini nudi dentro una vetrina, come fossero persone. Poco dopo, una catasta di bare che immagino fossero vuote, contribuì a farci gelare il sangue nelle vene. Non posso negare che nell’occasione ci deve essere venuto più di qualche capello bianco.
La salvezza è arrivata strada facendo, quando tra la nebbia apparve una luce via via sempre più viva. Era una roulotte della Flm di Brescia, lavoratori metalmeccanici subito accorsi coi primi volontari e, con poche ma precise indicazioni, ci permisero di rientrare ormai stremati dopo 4 ore e oltre 250 km percorsi lì attorno.

Ricordo le tendopoli, come oggi si possono vedere in tv quelle dei fuggitivi dalle guerre, la solidarietà e i ragazzi che suonavano la chitarra davanti al fuoco per alleviare le pene. Ma pure atti di sciacallaggio, gente ignobile che nonostante il dolore attorno, cercava di trovare un tornaconto anche in quelle circostanze. Come i bambini mandati a chiedere bottiglie d’acqua e altre cose di prima necessità nel nostro campo base, che poi venivano rivendute a “borsa nera” a prezzi più che decuplicati a chi mancava tutto. In un paese dove ci eravamo fermati per un caffè, mi avvicinò una donna: era la titolare dell’emporio accanto. Mi chiese, sicuramente equivocando, se potevamo darle una di «Quelle belle coperte di lana che avete portato» perché serviva per il corredo della figlia. C’erano quelli che cercavano dall’Enel dei risarcimenti inventati e chi, come nelle bancarelle dei mercati rionali, si sceglieva i panni migliori arrivati dalle raccolte, per poi spesso buttare in terra gli altri, rendendoli inutilizzabili.
Ma il benvenuto in Irpinia lo avevamo ricevuto appena arrivati da Roma. Mentre stavamo transitando coi mezzi incolonnati per Grottaminarda, una “persona” tra la gente sulla strada, ci apostrofò arrogantemente e con disprezzo in dialetto con: «Ecco, mo’ sono arrivati gli americani!».

Però ho sempre negli occhi e nelle mie immagini, la dignità di alcuni abitanti di un paese chiamato Melito Irpino: quella sì, l’ho fotografata. Un paese nel 1980 subì lievi danni, ma nel precedente terremoto del 1962 (magnitudo 6,4) fu distrutto. Così fu ricostruito un po’ più in là, usando però tecniche antisismiche. Cosa che non avvenne per gli altri paesi del “cratere” di allora, che perlopiù sistemarono alla meglio gli edifici, ma si fecero fare delle belle facciate: spesso le uniche strutture ritrovate in piedi.
Enel mise in piedi undici campi base con tecnici e operai giunti da tutta Italia che si sono alternati ogni 10-14 giorni. Si misero in opera chilometri di cavi e linee aeree, cabine di trasformazione, pali e tralicci. Prima coi gruppi elettrogeni e poi dalla rete riparata, in qualche modo si poterono accendere le stufette elettriche per riscaldare le tendopoli e fare un po’ più di luce.
Qualche anno fa sono ritornato in Irpinia, ma non ho avuto un tonfo al cuore però tanta rabbia sì, a vedere quanto cemento armato era stato usato a sproposito per fare strade, tornanti e viadotti, capannoni industriali spesso non utilizzati. Furono spesi oltre 60 mila miliardi di vecchie lire, equivalenti a 30 miliardi di euro oggi, ma credevo che infine, tra tanti sprechi tutti avessero avuto una casa da tempo. Invece ho recentemente appreso che c’erano ancora alcuni nuclei familiari di Montella (Av), che stavano nei container dal lontano 1980. Allora mi rivolgo alla politica tutta: noi lì c’eravamo e le nostre mani erano a scavare calcinacci. Voi dove eravate e dove avete messo le vostre mani?
Questo mio ricordo è per coloro che stavano con me in quei giorni, amici, colleghi, conoscenti, gente incontrata per caso, che in un modo o nell’altro oggi forse non ci sono più.
