Consorzi di Tutela del cibo e del vino: Domande e risposte
Cerchiamo di capire cosa è un Consorzio di Tutela, quali sono (o dovrebbero essere) le sue funzioni e i doveri sacrosanti verso gli associati, senza dimenticare la promozione del territorio di competenza
Con riferimento al commento di Giampietro Comolli, pubblicato oggi:
Newsfood.com, 14 novembre 2023
Giampietro Comolli, gestire un’azienda privata diventa sempre più complicato; gestire un consorzio lo è ancora di più. Cosa servirebbe ad un Direttore di Consorzio per tenere ben saldo il timone in questo mercato sempre più insidioso?
Gestire una impresa privata, piccola o grande che sia, un titolare o 5 fratelli ai vertici, ha bisogno di una strategia diretta al mercato, al posizionamento, alla necessità di rispondere in primis ad una domanda indipendentemente dall’offerta. Ovvio che cambiano pesi e misure, investimenti diretti, rapporti con 2 o 300 dipendenti. Esperienze del genere aiutano. Ma essere un bravo direttore di consorzi di tutela – oggi – nell’agroalimentare o enologia seppur con differenze legislative ancora in atto è completamente diverso da 20-40 anni fa.
Oggi non esistono figure in carica di direttori che stanno incidendo e trascinando il comparto e il settore: molto incidente la figura del presidente, poco incisiva nell’assunzione di responsabilità e rischio da parte delle giovani leve. Più propense a eseguire e a seguire l’ordinarietà delle cose amministrative burocratiche piuttosto che lanciarsi in progetti eclatanti. Molti consorzi – oggi – anche quelli più grandi e ricchi stanno portando avanti strategie, scelte, canali, modelli, comunicazioni di 20-40 anni fa.
Il consorzio di tutela non è una barca che deve governare o risolvere insidie di mercato, il consorzio deve fare tutela territoriale, distrettuale, integrata e multilaterale con tutti i settori dell’offerta: qui sta la differenza con l’impresa privata. Senza doppioni e accavallamenti. Senza invasioni di campo e di filiere interprofessionali: il piccolo socio non deve essere succube del grande socio. Il piccolo socio – sulla tutela e scelte del disciplinare – deve contare singolarmente come il più grande socio. E’ sulla promozione che chi investe di più deve avere più voce in capitolo. Oggi, il bravo direttore è quello che sa guidare il mondo aperto della produzione rispettando e sostenendo gli interessi di tutti gli associati e… i non associati!
Indubbiamente un master ad hoc sarebbe particolarmente utile… ma le materie dovrebbero essere diverse, chi e come potrebbero avere le competenze giuste?
Comolli:- Nel 2009 stesi il programma didattico di un corso alta formazione (tipo quello della Sorbona a Parigi o di Montpellier) con diversi professori universitari di diverse materie per direttori di consorzi, ma non ebbi adesioni da parte di enti e istituzioni cui era rivolto. Essere agronomo ed enologo, parlare e scrivere molto bene l’inglese oltre che l’italiano, anche il francese, conoscere il “prodotto” tutelato … sono competenze obbligate, logiche, naturali che in ogni caso devono esserci per l’iscrizione al master.
Il master deve fornire tutto quel know how materiale e immateriale che un grande direttore di consorzio deve avere.
Nel 1982-1983 ebbi come maestro Renato Ratti di Asti e ne vado orgoglioso. Mi insegnò tantissimo come pure Paolo Lazzeri del Chianti. Oggi materie legali e giuridiche sono fondamentali. Saper costruire un progetto operativo-amministrativo, avere empatia e ottimi rapporti interpersonali all’estero, saper conoscere i corridoi di diversi ministeri, essere ambasciatori e diplomatici, avere curiosità di tutto, conoscere la democrazia continentale, saper parlare in pubblico in italiano e inglese sapendo attrarre calamitizzare il pubblico, avere idee semplici e chiare, essere disponibile a rischiare e metterci la faccia andando anche contro il presidente… queste sono le materie nuove che un master con gli attributi deve saper infondere.
Quali sono i benefici che il consorzio può (dovrebbe) dare ai suoi associati?
Ripeto sempre che il consorzio è un paladino dell’offerta economica e non della domanda, ma deve conoscere molto bene la domanda di mercati e di consumatori diversi, ma non cercare di introdursi o di governarli. Per offerta – oggi – non intendo viticoltura ed enologia, non solo disciplinare e vigilanza, non solo metodologia e forma produttiva… ma soprattutto la funzione “distrettuale”.
Consorzio e istituti e strade dei sapori e del vino, associazioni culturali, associazioni ambientali e volontari, altre produzioni locali, attrazione e ospitalità, spettacolo paesaggistico sono tutti fattori ed elementi, collettivi e soggettivi, che il consorzio deve “dare e offrire” ai propri associati secondo una filiera corta o lunga a secondo dei prodotti e dei consumi.
Queste progettualità e iniziative e azioni (anche come misure legate a fondi comunitari di coesione e di organizzazione del mercato o di piani di sviluppo regionali) sono i veri benefici offerti agli associati. Ma nessun accapparamento del mercato: competenza della impresa
Quanti e quali sono i Consorzi in Italia? … e in europa, come è la situazione?
Troppi in ogni caso. Vale la regola che con il prof. Mario Fregoni e il ministro Goria si applicò con la legge 164 del 1992 anti metanolo: durezza e certezza fin troppo ma a tempo determinato. 170-200 consorzi del vino (oltre a quelli del cibo) in Italia su 500 denominazioni sono pur sempre tanti. A parte 10-15 che hanno strutture autonome dirigenziali (seppur con i limiti anzi detti ed anche con unitarietà presidente-direttore) molti vivacchiano e oltre che essere sulla carta e svolgere minimali azioni al carro di qualcun altro pubblico o privato, non hanno una strategia.
Ci vogliono consorzi di tutela e organizzazioni di secondo grado sani referenti e interfaccia a livello regionale e interregionale, ma con rispetto di tutte le DO anche piccole. Non parlo di Doc regionali con 20-50 tipologie diverse di vini per cui il consumatore non capisce più nulla.
Come dovrebbe essere un Consorzio modello se si dovesse partire da zero?
Se potessi confidarmi ad un ministro nel 2024 come feci nel 1990 con Goria, consiglieri una piramide consortile nel rispetto di tutte le DO-IG esistenti, escluso quelle non attive, separerei tutela-valorizzazione istituzionale (anche adv) da promo-commercilizzazione mercantile, cambierei o proporzionerei diversamene l’unità di conto dei voti assembleari, utilizzerei il modello un voto-una testa per le questioni tutela-disciplinare e il voto censuario per le spese e investimenti promocommerciali ed eventi, modificherei le tempistiche e modalità di accesso alla scala Ig, Doc e Docg, non mescolerei il valore di una fascetta Docg con la Doc oppure abolirei entrambe, non riconoscerei cambiamenti di disciplinari che ostacolano o impediscono le opportunità di sviluppo e di designazione in modo eguale a tutti gli imbottigliatori, obbligherei l’intera filiera di produzione entro il distretto produttivo integrato, inserirei più peso decisionale al singolo viticoltore (vero proprietario dell’Albo), prevederei che il consorzio avesse autonomia ( e non dipendenza) nel controllo del rispetto qualitativo sul mercato su soci e non soci, riformulerei il modello dell’erga omnes. Ovviamente anche a livello di impostazione dei modelli produttivi-ampelografici utilizzerei di più il modello delle donazioni per puntare sul mix vitigno autoctono e internazionale, su una identità unica per distretto e non tante tipologie di sapore e enologica. Una bozza in Via XX Settembre a Roma di tutto questo c’è già dal 2018 a mia firma. Speriamo!
Se Gino Bartali fosse ancora in vita forse direbbe:-“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!”
… e allora facciamolo!
Giuseppe Danielli,
Direttore di Newsfood.com
Nutrimento &nutriMENTE
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