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ZUCCHERO e un mondo di prodotti delocalizzati per abbassare costi e fare finanza

ZUCCHERO e un mondo di prodotti delocalizzati per abbassare costi e fare finanza

By Giuseppe

ZUCCHERO e un mondo di prodotti delocalizzati per abbassare costi e fare finanza

Non c’è solo il sale, anche lo zucchero. Troppa delocalizzazione industriale per abbassare costi fissi, aumentare utili e dividendi, abbassando anche qualità del prodotto finale (vedi tessuti, abbigliamento, occhiali ecc..), svendere l’agroalimentare per materie prime ad uso industriale per automotive e meccanica e chimica. Oggi italia e euopa sono carenti di tanti prodotti basilari.

 

 

Newsfood.com, 30 aprile 2022

ZUCCHERO e un mondo di prodotti delocalizzati per abbassare costi e fare finanza

Non c’è solo il sale, anche lo zucchero. Troppa delocalizzazione industriale per abbassare costi fissi, aumentare utili e dividendi, abbassando anche qualità del prodotto finale ( vedi tessuti, abbigliamento, occhiali ecc..), svendere l’agroalimentare per materie prime ad uso industriale per automotive e meccanica e chimica. Oggi italia e euopa sono carenti di tanti prodotti basilari. Lo zucchero è fonte energetica fondamentale per chi ha fame insieme al pane e al latte. Farine, latte, zucchero… non solo mascherine igieniche, alcool denaturato, spirito, camici sanitari, provette, tubi sale operatorie…una quantità enorme di prodotti delocalizzati. E se succede qualcosa a chi ci rivolgiamo? Non è solo una questione di petrolio, gas, metano… 
Dopo il sale anche lo zucchero. L’Italia importa quasi il 90% del fabbisogno.  Delocalizzare ha creato dipendenza: l’Europa artefice dell’abbandono e scelta dell’industria performante già negli anni ’90. Cambio del clima e transizione ecologica, potenziale rinascita e recupero produttivo. Fu Napoleone a spingere per la barbabietola da zucchero in Francia e Italia. Il sorgo zuccherino valido integratore non solo economico.
L’Europa è, oggi, il primo importatore al mondo di zucchero. Lo zucchero rientra in un lungo elenco di produzioni delocalizzate. Il fattore “quote di produzione” che ha riguardato diversi prodotti agroalimentari, latte e carne su tutto,  e la liberalizzazione del mercato di altri prodotti, ha reso l’Europa in 40 anni dipendente da produzioni estere, anche vitali, non solo contingenti.

Lo zucchero è producibile da 3 fonti diverse:

– canna da zucchero di origine asiatica e poi diffusa nel Mediterraneo e America del sud;

sorgo zuccherino di origine subtropicale polifunzionale e molto interessante con cambi climatici;

barbabietola di origine continentale europea, più ricca di saccarosio, diffusasi in Francia e in Italia grazie al decreto del 1811 di Napoleone con 50.000 ettari in soli 2 anni.

A cavallo degli anni ’70-’80 lo zucchero italiano entra in crisi, per obsolescenza degli impianti di produzione, inflazione crescente e di conseguenza interessi passivi del 25% sui debiti industriali, politiche nazionali errate o, per lo meno, sotto stimate e succubi di continue scelte di “delocalizzazione” della produzione favorendo la importazione in Europa, e in Italia, di zucchero da paesi in via di sviluppo. Questa nuova impostazione vedeva la nascita di nuovi accordi internazionali e contratti trasversali in cui l’acquisto di zucchero compensava altre forniture o scambi di altri prodotti non alimentari di uso tecnologico e industriale. Piani successivi non portarono a nulla, anzi dalle quote di produzione si passò al disastro chimico-zucchero con il crack  dei Ferruzzi-Gardini, sicuramente anche dovuto alla alleanza strategica dei forti concorrenti in Germania e Francia. La nascita della SPA Ribs non fece altro che aggravare la situazione e pilotare l’abbandono, con riduzione delle quote, determinò la rinuncia dei coltivatori e la imprenditoria industriale nazionale si ecclissò. In Francia e Germania invece furono le cooperative a continuare,  mentre in Italia fu costituita una società finanziaria ma con 4 sindacati bieticoli senza bieticoltori! Anche la ricerca e la scienza agraria in Italia non ebbe seguito, mentre in Europa si applicarono innovazione e presidi contro le malattie della piante.
L’Ocm zucchero del 1995 diede un altro scossone attraverso la liberalizzazione dei contratti in Europa, riducendo il sostegno e le quote prestabilite, accettando importazione da paesi terzi  di zucchero di canna a metà del prezzo sul mercato interno. Ad ettaro la Francia ha prodotto fino al 2006,  il doppio di zucchero che l’Italia. Il 2006 determinò un ulteriore crollo: l’Europa approvò indennizzi ai coltivatori che smettevano di coltivare le barbabietole soprattutto nei paesi meno performanti da un punto di vista “industriale” e non qualitativo, ovviamente l’Italia, in primis, accettò una mancetta annuale ai produttori. L’indennizzo durò poco, come logico, e portò allo smantellamento della produzione. Da 1,6 milioni di tonnellate all’anno di zucchero prodotti (soprattutto con barbabietole) a fronte di un fabbisogno nazionale di 1,7 tonnellate (quindi autosufficienza per oltre il 90%),  oggi produciamo 250 mila tonnellate su 40/45.000 ettari. Invece di 19 stabilimenti solo 4. La Coop Italia Zuccheri da sola produce oggi il 50% della produzione nazionale. la autonomia nazionale è pari oggi al 15% del fabbisogno totale.    

Lo zucchero fa bene o fa male?

Lo zucchero fa bene e fa male, certamente, dipende dalle quantità, dalle modalità, tempi  e tipo assunto. Ma serve, serve soprattutto nella alimentazione base di sussistenza energetica e nel grande made in Italy della pasticceria, dell’arte di produzione di dolci per horeca e  nei ristoranti stellati.  Nel terzo millennio, ma soprattutto a seguito dei cambi climatici e delle nuove condizioni ambientali produttivi, con l’obiettivo di ridurre la CO2 emessa, usare meno prodotti chimici, diffondere nuove coltivazioni, equilibrare le produzioni intensive ed estensive, incrementare la biodiversità e le colture biologiche, la coltivazione del sorgo zuccherino può rappresenta una valida alternativa anche in aree interne perché sopporta l’arido, siccità, vento e leggere gelate. Ideali i terreni del centro e sud Italia.
Per questo bisognerebbe vedere se il PNRR agricoltura e alimentazione o transizione ecologica o sviluppo delle zone interne svantaggiate prevede l’introduzione di nuove coltivazioni e il recupero e ripristino di colture e allevamenti oggi dismessi da decenni solo per motivi economici, mentre occorre produrre in base alla sostenibilità generale, all’economia produttiva di altra economia, al risparmio energetico e acqua, al minor impiego della chimica in natura.  
La storia dello zucchero italiano, da un punto di vista economico e industriale,  dovrebbe farci capire che, senza sparare formule di autarchia assoluta con obiettivi e finalità diverse, una visione finanziaria e solo economica in agricoltura e nell’agroalimentare è stata non solo controproducente, ma catastrofica. Penso alla florida Federconsorzi come è finita.
Quindi ritornare a produrre zucchero in Italia sarebbe indispensabile, come incrementare la produzione di kiwi, di frutti piccoli, di mele e pere, di arance e pompelmi che possono essere utilizzati anche come bevande salutari. Inoltre un recupero di coltivazione vuol dire riaprire stabilimenti, occupare posti di lavoro che si verrebbero a creare autonomamente creando filiere complete, dalla produzione al consumo.
L’Italia è dipendente dalle importazioni soprattutto in un momento in cui si torna a parlare di autosufficienza alimentare in Europa, accorciamento delle filiere e rimpatrio di imprese.
Un primo segnale di recupero, in Francia e Germania, è avvenuta con la campagna 2017-2018, purtroppo coincisa con una globale depressione dei prezzi sul mercato UE che ha nuovamente scoraggiato tutti. I fondi UE della ricerca sono stati ben utilizzati in Francia e Germania definendo diversificazioni produttive, nuove cultivar, diversi metodi di trasemina nel complesso e soluzioni tecniche-programmatorie per gestire i rischi produttivi e di mercato. L’UE sta incentivando con sostegni finanziari forme di cooperazione anche fra imprese di paesi diversi del settore integrato dello zucchero, dalla scelta della coltivazione alla innovazione industriale, in modo di consentire la gestione dei mercati, interno e globale, e la diversificazione multilaterale del prodotti finito.
Purtroppo gli operatori della filiera in Europa (non è una questione di Paesi ma di politiche)  hanno visioni divergenti e contrastanti, sempre ancora per la questione delle condizioni più performanti di certe regioni e imprese a scapito del servizio al consumatore finale più comprensivo a sopportare un costo superiore se il prodotto è  certificato europeo, meno favorevole a maggiorazioni di fronte a speculazioni settoriali o finanziarie o di utilità industriale,  soprattutto multinazionali. Sul cibo la questione “artigianale” ha ancora una sua valenza non solo economica. E’ sempre più richiesto che la Pac, l’Ocm, il Next Generation Plan abbiano un ruolo decisivo nella scelta di aggiustamenti e scelte di meccanismi di azione che tengano conto di tutti i fattori compreso le valenze di transizione energetica, uso delle biomasse, più modelli di consumo consapevole, no spreco, strategie di coltivazione e di produzione che facciano senza concimi e presidi chimici e inorganici anche a scapito dei volumi, ma non della qualità, soprattutto se questa soluzione significa anche più occupazione e riapertura anche di stabilimenti piccoli come è stato per il pomodori e per i cereali da farine.                   

Giampietro Comolli

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Giampietro Comolli

Giampietro Comolli
Economista Agronomo Enologo Giornalista
Libero Docente Distretti Produttivi-Turistici

Mob +393496575297

Editorialista Newsfood.com
Economia, Food&Beverage, Gusturismo
Curatore Rubrica Discovering in libertà
Curatore Rubrica Assaggi in libertà

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