Italian sounding o agropirateria?

14 Luglio 2009
I lettori che frequentano questa rubrica avranno ormai capito quale sia la nostra opinione sull’uso ormai inflazionato del concetto di Made in Italy, al quale viene spesso opposto quello di agropirateria, la cui connotazione, evidentemente negativa, non necessita ulteriori commenti.
Più articolati (ma pur sempre critici) appaiono, invece, i significati attribuiti ad un altro termine: italian sounding.
Ne citiamo alcuni:
Il settimanale Economy pubblica questa settimana una inchiesta sul cosidetto italian sounding. Di cosa si tratta? Facciamo un esempio.
Se in Italia usiamo il Parmigiano, in Brasile è più facile che usino il Parmesao; in Argentina, il Regianito; nel Sudamerica, in generale, il Parmesano; in Cina, il Parmeson; negli Stati Uniti, il Parmesan.
Quelli elencati sono prodotti che portano nomi di marchi che suonano italiani (appunto, italian sounding), ma che italiani di origine non sono affatto.
(https://salvalingua.blogspot.com/)
Nella discussione sono emersi anche le questioni della sicurezza alimentare e del cosiddetto “italian sounding”, di quei prodotti contraffatti che invadono i mercati internazionali, utilizzando un nome che “suona italiano”. Il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Luca Zaia ha sottolineato che la sicurezza alimentare oltre alla food security comprende la food safety, a difesa di un cibo sano, di qualità e dall’origine garantita e che «la qualità non è un lusso ma uno standard».
)
Si può affermare che i filoni principali di contraffazione dei prodotti alimentari italiani sono due:
– la falsificazione illegale delle Indicazioni Geografiche tutelate, delle Denominazioni protette e dei “marchi” aziendali;
– i riferimenti ingannevoli ad aree geografiche italiane, l’utilizzo del nome Italia o di nomi e simboli ad essa riconducibili (Italian Sounding).
https://www.federalimentare.it)
A ciò si aggiungano gli innumerevoli interventi dei soliti noti (CIA, Coldiretti et similia), che tralasciamo per brevità, ma il cui tenore è facilmente intuibile.
In ogni caso, come pare, anche l’Italian Sounding non piace ai più.
Siamo perciò particolarmente lieti di poter condividere con i lettori di Newsfood.com l’articolo ITALIAN SOUNDING O AGROPIRATERIA?, apparso nel numero di maggio 2009 della rivista ALIMENTA.
In esso, l’autore (Antonio Neri, che ringraziamo per la gentile disponibilità) presenta una chiave di lettura chiara ed originale dell’attuale scenario: e sappiamo bene di quanto ce ne sia bisogno!
Buona lettura.
NOTE FINALI, per chi vuole approfondire:
Sicurezza alimentare: quanti sono i Made in Italy?
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Dott. Alfredo Clerici
Tecnologo Alimentare
Newsfood.com
_Antonio Neri, Alimenta_______________________________________________
ITALIAN SOUNDING O AGROPIRATERIA ?
Anche le vicende di famiglie del popolo possono essere storie importanti. Come quelle legate ai nostri emigranti che portarono in tutti i cinque continenti quel che di più caro poteva consolarli nel ricordo del paese che li aveva visti nascere ma che la terra avara aveva esiliati. Con il tempo desideri ed emozioni si sono confuse con il ricordo della gioventù e degli ancestrali profumi e sapori della perduta cucina casalinga. Anche se rinnovata, in modo alquanto pretenzioso in verità, con il benessere trovato nella nuova Patria.
Notevoli correnti di traffico commerciale alimentarono dall’Italia questi desideri che le nuove generazioni vedono oggi soddisfatti da importanti attività produttive locali. Fenomeno che non riguarda ovviamente solo gli italiani d’origine, ma che ha in comune con gli altri, fatalmente, l’involuzione della qualità, intesa come riferita a quella originaria. Il che è nelle cose umane perché all’imbastardimento dei gusti (dovuti anche alle unioni miste) ha contribuito l’applicazione di tecnologie produttive indirizzate più a soddisfare le necessità che i desideri della moderna società dei consumi: massa di beni a costi unitari minimi.
E’ qui che sorge l’interrogativo: “italian sounding” o “agropirateria”?
Tenterò una risposta dopo che avrò raccontato di alcune di queste storie di famiglia, che già di per se stesse conducono ad una sola conclusione, come vedremo. E cominciamo da un certo signor Parma che negli anni ’30, a causa delle leggi razziali fasciste, emigrò in Canada dove, favorito dalla sua abilità di bravo norcino, iniziò a produrre prosciutti che distinse con il nome di famiglia e cioè “Prosciutto Parma”. Gli affari gli andarono talmente bene che l’azienda fu acquisita dalla multinazionale canadese Maple Leaf Meats
Inc. che registrò il marchio. Cosicché, quando si affacciò sul mercato canadese il Consorzio di Tutela del Prosciutto di Parma lo citò in giudizio e vinse la causa.
Oggi il Consorzio deve accontentarsi di commercializzare il suo prosciutto sotto l’appellativo “the original ham”. Tutto sommato non c’è male; decide il consumatore.
Enrico Auricchio (quando si dice il destino nel nome) intraprendente giovanotto napoletano raggiunge trent’anni fa i suoi parenti nel Wisconsin dove l’accogliente cittadina di Denmark decreta il successo del suo “Provolone Auricchio”. Da qui la fortuna dell’impresa che prende il largo sull’onda della corrente di traffico, già fiorente, alimentata dall’Italia dalla grande famiglia degli Auricchio. Una vera dinastia che inizia con Gennaro Auricchio nel 1877 con il primo caseificio a S. Giuseppe Vesuviano e che, alla ricerca di situazioni ambientali favorevoli allo sviluppo dell’impresa, approda a Cremona dove con il figlio Antonio può aumentare la produzione che con i primi emigranti traversa l’Oceano. Per collocarsi stabilmente nel 1976 con il nipote Gennaro Auricchio, il gentiluomo imprenditore scomparso di recente, a Pieve San Giacomo.
La dinastia continua con i tre figli fiduciosamente attesi alla prova del rispetto della tradizione di famiglia. Niente di nuovo sotto il sole dunque perché gli “italiani” hanno percorso, entro i confini, il tragitto ideale che ha portato gli “americani” nella nuova terra a conferma del detto “la Patria è la dove c’è il pane”.
Ma torniamo nel Wisconsin dove la famiglia di Paolo Sartori, emigrato nei primi anni dello scorso secolo dalla piccola Valdastico nell’Altipiano dei Sette Comuni, Vicenza, fonda nel 1939 la “Sartori Foods, Plymouth, Wisconsin” che produce, insieme ad altri tipi di formaggi d’origine europea anche i nostri che sono denominati come sono conosciuti nel mondo: Fontina, Asiago, Gorgonzola, Taleggio, Parmigiano.
Terra di casari il Wisconsin, a quanto pare, che finanziano il “Wisconsin Specialty Cheese Institute” a sostegno del progresso delle loro imprese.
“R&F Pasta” è il marchio della pasta prodotta della “Ravarino and Freschi, Inc”. Dai nomi dei fondatori Giovanni Ravarino e Giuseppe Freschi stabilitisi nel 1901 a Saint Louis nel Missouri e che da oltre 100 anni, di generazione in generazione, soddisfa la passione americana per la “genuine Italian pasta” come garantita dall’impegnativo slogan e testimoniata dai diversi tipi di pasta prodotti e offerti con gli stessi nomi con i quali noi li conosciamo da sempre: spaghetti, maccheroni, fettuccine, tagliatelle, lasagne, linguine, penne, ziti.
Lorenzo Petroni, fondatore della “Petroni Vineyards” di Sonoma, California, produce dal 1998 un vino rosso a marchio “Brunello”. E’ del marzo dello scorso anno la diffida del Consorzio Tutela Brunello di Montalcino all’uso di questa denominazione. Al che Lorenzo Petroni ribatte che il nome del suo “Brunello” non è riferito al vino bensì al tipo di vitigno, un Sangiovese coltivato nella sua proprietà di Poggio alla Pietra di Sonoma, una delle aree vinicole più pregiate della California. Stiamo a vedere come finirà la controversia ma non
scommetterei sulla vittoria del Consorzio italiano.
Questi i casi rappresentativi di una serie non si sa quanto lunga. Sta di fatto che la questione è di enorme rilevanza e permane irrisolta dal 2005 ancora sul tavolo delle proposte avanzate in sede di accordo TRIPs.
E’ fallito anche il Doha round, la tornata di negoziati internazionali che nelle intenzioni prevedeva un registro multilaterale di tutela delle denominazioni d’origine, sicché permane l’incertezza sui sistemi di tutela a causa dei diversi ordinamenti nazionali.
Ma l’Italia che può fare? “Con le scarpe sporche di terra”, come ama autocitarsi il ministro Zaia, non si entra nei salotti buoni. Le sue invettive contro l’agropirateria mondiale, indicata come responsabile di danni alla nostra produzione agroalimentare per miliardi di euro, tengono la scena mediatica più per ragioni politiche che per convinzione maturata. E l’Europa che può fare? Delle proposte avanzate da Mariann Fischer Boel, commissario all’agricoltura e sviluppo rurale, per “ottimizzare l’efficacia dei sistemi di commercializzazione e di qualità dell’agroalimentare” una sola è di bruciante interesse quanto traboccante di illusionistica vacuità: “aumentare a livello internazionale la tutela delle indicazioni geografiche”.
E come? I Paesi che da sempre considerano le denominazioni d’origine una forma più o meno rafforzata del marchio non accettano l’impostazione secondo cui dietro un nome c’è una terra, una cultura, una tradizione in definitiva un valore aggiunto non riproducibile. Sicché le varie proposte debbono fare i conti con il compromesso, necessariamente al ribasso, delle varie forme giuridiche che postulano la salvezza di quanto è stato acquisito sul mercato internazionale nei decenni passati.
E’ un sacrificio imposto, non c’é dubbio, a chi ha dato i natali alle eccellenze agroalimentari tanto invidiate nel mondo ma che deve ora confidare nelle proprie capacità di farsi riconoscere sul mercato e di comunicare efficacemente quali sono le differenze fra un prodotto e l’altro.
Ha il fragore della tempesta lo scontro in atto in questo contesto e la protesta di Coldiretti sulle piazze italiane è uno strepitio neppure percettibile. Il modo generalizzato e indefinito con il quale si esalta la qualità della nostra produzione agroalimentare serve solo lo scopo di tacitare i molti che speculano sulla quantità a danno dei pochi che della qualità hanno fatto il baluardo a difesa della produzione tramandata. Non una sola parola è spesa a raccomandare l’inversione di rotta cioè a non inseguire il profitto con la
produzione massiva che fatalmente comporta l’abbattimento della differenza che ancora separa la nostra qualità da quella della produzione che ci imita sotto tutte le latitudini.
Non una sola esortazione è volta a limitare le continue richieste di modifiche ai disciplinari di produzione. Richieste che il più delle volte nulla hanno a che vedere con “l’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecniche” (pur previste dall’art. 9 del Reg. 510/2006) e molto hanno a che spartire con gli interessi contingenti di bottega. Sconosciute restano le motivazioni della “protezioni transitorie” acriticamente accordate dal Ministero delle Politiche Agricole confidando nel tempo che le renda definitive.
E infine. Lo vogliamo capire che il consumatore non è più abbacinato dalle sigle DOP, IGT, DOC ma considera piuttosto il giusto rapporto qualità prezzo? Se non vogliamo che esso prediliga quel che si proclama italiano e invece italiano non è, non rimane che difendere la qualità il che significa rispetto della tradizione cioè, secondo il principio comunitario, produrre nel rispetto dei “metodi locali leali e costanti”. Vogliamo finalmente renderci conto che il made in Italy non basta più?
Tutto il resto è rumore. L’agropirateria ce la siamo inventata a coprire le pudende di una ipocrisia ormai denudata.
Antonio Neri