‘iplanta’, la lotta a parassiti e patogeni in campo agroalimentare con le nuove biotecnologie

7 Ottobre 2019
iPlanta, un progetto per contrastare parassiti e patogeni in campo agroalimentare con le nuove biotecnologie
di Maurizio Ceccaioni
Le biotecnologie, gioia e dolori della moderna società, tra ancestrali paure e speranze future. Un tema legato alla presentazione alla stampa il 2 ottobre, presso la Sala dei Presidenti di Palazzo Giustiniani (Senato della Repubblica), del progetto europeo iPlanta.
Il progetto è nato all’interno di ‘Horizon 2020 COST’, un programma europeo per la ricerca e l’innovazione «per favorire lo sviluppo della ricerca scientifica di altissima qualità, rimuovendo le barriere all’innovazione e incoraggiando le partnership fra pubblico e privato».
La scelta della location per questa presentazione non è stata casuale, ma nata su iniziativa della senatrice Elena Cattaneo, che ben prima della sua carica istituzionale è un’accademica nota in particolare per le ricerche sulle cellule staminali.
Patogeni, parassiti e cambiamenti climatici, sono emergenze globali
A fronte di un crescente fabbisogno alimentare mondiale dovuto al continuo incremento della popolazione, c’è una continua perdita di suolo, sia per i cambiamenti climatici che per l’azione dell’uomo. Fenomeni che riducono in maniera sostanziale la disponibilità di cibo nel mondo, ai quali si sono aggiunti i sempre più gravi danni alle colture agricole, causati da nuovi patogeni e parassiti.
Se a livello globale il fenomeno delle invasioni “aliene” è grave, nel nostro Paese virus ed insetti nocivi sono una vera e propria calamità per le coltivazioni, e possono causare seri impatti sulla nostra biodiversità, dato che si stima siano presenti in Italia oltre 1.500 specie aliene, di cui il 30% sono insetti.

Parliamo, ad esempio, del batterio Xylella fastidiosa, che ha distrutto qualche milione di ulivi in Puglia; o il virus Plum Pox (Ppv) meglio conosciuto come sharka o vaiolatura delle drupacee (pesco, susino e albicocco), che in dieci anni ha distrutto il 25% della produzione italiana di questi frutti.
Se non bastassero i patogeni, fra i casi più recenti di diffusione di insetti dannosi, la cimice asiatica (Halyomorpha halys), un fitofago in continua diffusione su tutto il territorio nazionale dal 2012, che colpisce tutte le coltivazioni, tanto che ho scoperto una nidiata a fine agosto sia sui miei peperoncini che sulle zucche. Oppure pensiamo alla piralide del mais (Ostrinia nubilalis), una piccola farfalla notturna che attacca i fusti del granoturco o di altre specie come canapa, fagiolini, mele, pere, sorgo, peperone, ecc., con seri danni alle produzioni.
Ma c’è anche il moscerino dei piccoli frutti (Drosophila suzukii Matsumura), un dittero originario dell’Asia che sta creando notevoli problemi nella coltivazione di fragola, ciliegio, mirtillo, lampone e mora, ma che colpisce anche alcuni tipi di vite (Aglianico, Montepulciano, Merlot, Moscato Rosa, Pinot Nero), specie in prossimità della vendemmia.

La ricerca, per combattere un problema con cui dobbiamo fare i conti “da ieri”
Grazie alla ricerca, con le continue innovazioni tecniche e scientifiche nel settore agricolo, si può contribuire a garantire la sostenibilità ambientale, economica e sociale al comparto agroalimentare, evitando anche gli enormi rischi di contaminazioni alimentari.
Una ricerca che punta a sviluppare colture agricole particolarmente resistenti a questi organismi nocivi, che secondo uno studio del 2019 pubblicato su Plantgest, metterebbero a rischio di estinzione il patrimonio dei prodotti tipici italiani, causando danni stimati in più di un miliardo di euro l’anno.
Allo scopo, iPlanta si propone di aggregare i principali gruppi di ricerca impegnati sulla tecnologia RNAi (RiboNucleic Acid interference) in Europa e Stati Uniti, mettendoli in collegamento con organizzazioni internazionali come Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare), Fao (Organizzazione Onu per l’alimentazione e l’agricoltura) e aziende private.
Per l’Italia sono interessate le Università di Ancona, Bologna, Verona e Roma La Sapienza; Crea ed Enea, oltre ad aziende del settore e organizzazioni professionali.
Introdurre le biotecnologie in agricoltura anche con la sperimentazione sul campo
Durante l’incontro stampa sono state presentate le attività del progetto, coordinato dal professor Bruno Mezzetti, direttore del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Politecnica delle Marche. Si è parlato in particolare del possibile scenario riguardante l’introduzione di queste e altre biotecnologie nell’agricoltura europea e italiana, anche con la sperimentazione sul campo, tuttora vietata.

Una discrepanza tra le sperimentazioni delle biotecnologie in campo medico e quelle in agricoltura, che è stata sottolineata durante l’intervento di apertura dalla senatrice Elena Cattaneo che, a chiusura dell’incontro, ha sostenuto che «Bisogna disinnescare il marketing della paura che viene “acceso” in modo emotivo ed emozionale e mantiene distanti dalla conoscenza, quando invece la conoscenza è amica».
Un’implicita denuncia verso la “politica che non decide” è arrivata anche dal professor Mezzetti, che ha ricordato i danni per i nostri ricercatori con i limiti imposti attualmente in Italia, che possono solo «limitare i loro studi alla messa a punto di protocolli di modificazione genetica in laboratorio o, al massimo, limitatamente ad alcune piante erbacee in serra, senza quindi poter vedere il risultato finale della loro ricerca».
Limitazioni che non hanno invece nel resto del mondo, dove i gruppi di ricerca stranieri, privati e pubblici, possono fare una sperimentazione a tutto campo, specie nel settore privato. «Ciò comporta uno svantaggio nei nostri confronti – ha sottolineato Mezzetti – sia in termini di benefici economici che di sviluppo di nuove tecnologie e piante, capaci di rendere i sistemi produttivi più efficienti ed a basso impatto e, soprattutto, più sicuri e sostenibili per l’ambiente e per i consumatori».
Dello stesso avviso Marco Aurelio Pasti, vicepresidente Confagricoltura Venezia e imprenditore agricolo, che accusando gli ambientalisti che rifiutano il mais resistente alla piralide, di essere nei fatti «i mandanti della deforestazione». «Rifiutare l’innovazione – ha poi continuato – significa perdere in competitività e queste sono le conseguenze delle scelte fatte a suo tempo e, forse, all’epoca non sufficientemente valutate».

Parliamo di tecnologie come quelle applicate al mais resistente alla piralide, una varietà geneticamente modificata che in Italia non si può coltivare, ma che paradossalmente si può importato dall’estero. Anche perché – come ha ricordato Marco Aurelio Pasti, «la produzione italiana di mais si è dimezzata nel corso dell’ultimo ventennio e ogni anno, per importare i 5 milioni di tonnellate mancanti, l’agricoltura italiana deve sostenere un costo di circa un miliardo di euro».
La “palla” ora passa alla politica, perché secondo i convenuti, le istituzioni italiane si dovrebbero impegnare per garantire le condizioni per l’immediata attivazione delle procedure di valutazione e approvazione, secondo le normative vigenti, come la Direttiva europea 2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e il Decreto legislativo 224/2003 che determina l’attuazione di nuove notifiche per le sperimentazioni in campo di piante Ogm di particolare interesse per i nostri sistemi agricoli.
Ma quali sono i requisiti normativi e scientifici per avviare la sperimentazione in campo con piante geneticamente modificate e nuovi prodotti biotech?
È questa la domanda a cui hanno cercato risposta nella tavola rotonda pomeridiana, moderata dal giornalista e scrittore Antonio Pascale, i ricercatori ed esperti convenuti nella Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro, in piazza Capranica.
Con il professor Bruno Mezzetti (Univpm) e il dottor Salvatore Arpaia, coordinatore del Gruppo di lavoro sulla biosicurezza del Dipartimento Tecnologie Energetiche (Dte) dell’Enea, sono intervenuti il professor Joe Perry, già a capo del gruppo di lavoro sugli organismi geneticamente modificati dell’Efsa; la dottoressa Kara Giddings della Bayer Us – Crop Science R&D Regulatory Science; la professoressa Godelieve Gheysen, dell’Università di Gand (Belgio); il professor Huw Jones, docente di Genomica traslazionale per l’allevamento vegetale nell’Aberystwyth University (Galles, Uk); il professor Michel Ravelonadro dell’Institut national de la recherche agronomique (Inra).
Ma cos’è la tecnologia RNAi
Si tratta di una scoperta fatta casualmente nel 1998 da due americani, Andrew Fire e Craig Mello, poi premi Nobel per la medicina 2006. Essi, nel tentativo di modificare i colori di alcune piante di petunia (petunia juss) transinfettandole con un gene soprannumerario, scoprirono che un Rna a doppio filamento promuoveva la degradazione dell’Rna messaggero.
Il processo, poi definito ‘Silenziamento genico post trascrizionale’ (Ptsg), sta dando buoni risultati nel potenziare le capacità di difesa delle piante modificandone il metabolismo, per rispondere all’attacco dei patogeni attivando dei meccanismi di resistenza.
Cosa succede nel mondo sulla sicurezza alimentare
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha dato parere positivo sulla biosicurezza di diverse piante modificate per l’espressione stabile di RNAi per migliorarne le caratteristiche nutrizionali e, più recentemente, per la resistenza alla diabrotica del mais (Diabrotica virgifera), un insetto di origine americana che attacca sia le radici del mais che altre graminacee, leguminose, zucche e alcuni tipi di fiori.
In tutto il mondo sono state approvate diverse piante resistenti ai virus, come ad esempio il susino resistente al virus Plum Pox (sharka) e papaia resistente al virus patogeno Papaya ringspot ( Prsv ), e sono in fase di sviluppo molte altre applicazioni di controllo di virus, insetti e funghi, come ruggine dei cereali, muffa della frutta, peronospora della vite.
Secondo gli scienziati, l’introduzione controllata delle biotecnologie con l’uso del silenziamento genico post trascrizionale, porterebbe a migliorare le caratteristiche qualitative e produttive delle piante, così che il contenuto di nutrienti benefici per il consumatore viene incrementato, mentre allergeni, tossine, perdite post-raccolta e l’uso di fitofarmaci, vengono ridotti o eliminati.