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Il vino, come il petrolio, può diventare un indice economico e valutario

By Redazione

Il vino non è solo piacere: come il greggio, anche il nettare di Bacco si sta trasformando in un indice economico ed è sensibilissimo ai tassi valutari, è questa una
lettura macroeconomica del “fenomeno” vino – che non è affatto azzardato definire il petrolio del Mediterraneo – utile per spiegare il cosiddetto “paradosso italiano”, con le nostre
bottiglie che conquistano l’export, ma pareggiano nel mercato interno. Una tendenza commerciale influenzata dai tassi di crescita economica, ma ancora di più dai listini delle monete.
L’analisi e le prospettive per l’immediato futuro dell’enologia made in Italy saranno al centro del Salone del Vino di Torino (26-29 ottobre).

Il vino, come il greggio, è diventato un indicatore della ricchezza. Negli Stati Uniti era già capitato con un prodotto di larghissimo consumo, l’hamburger, che era, e ancora
è, un indice tanto dell’inflazione quanto del potere di acquisto. Utilizzato da The Economist come indice, ha dato luogo alla “Burgernomics”, e così come la Coca Cola e il
caffè Starbucks vengono usati come indicatori del potere di acquisto, succederà anche con il vino. Per le bottiglie di qualità si profila lo stesso scenario, ma con una
capacità esplicativa ancora maggiore: là dove si vende vino, il Pil è in crescita. E questo spiega perché si stia vivendo il paradosso italiano: le bottiglie made in
Italy conquistano i mercati del mondo, ma stentano su quello interno. In attesa di vedere confermati i dati del 2007 si è registrata con soddisfazione in Italia la prepotente crescita
dell’export, che nel 2006 per la prima volta ha sfondato il tetto di 18,5 milioni di ettolitri, per un controvalore superiore ai 3,2 miliardi di euro. Questa performance ha collocato il vino al
primo posto dell’agroalimentare per fatturato estero e tra i primissimi “contribuenti” attivi della bilancia commerciale. Tanto per avere un idea, basti dire che con l’export di vino l’Italia
paga l’8% della sua bolletta energetica. E’ chiaro dunque che l’attenzione si sposta da una dimensione di cantina ad una dimensione macroeconomica.

Ma la domanda centrale è: come si spiega il paradosso italiano? La prima ragione sta nella diversa crescita delle economie. Vediamo: il mondo cresce più o meno al 4,5% di Pil anno
su anno, l’Italia tre volte meno. La Russia ha fatto registrare un 6% in più di Pil, la Cina il 10% in più, la Germania attorno al 2%, la Gran Bretagna attorno al 3% e gli Usa si
sono attestati sul 4%. Ora, leggendo la mappa dell’export di vino italiano si scopre che le bottiglie nazionali vanno là dove si genera ricchezza e stagnano là dove la ricchezza
non c’è. Vuol dire che il vino made in Italy diventa un indicatore. Tant’è che oltre alla performance negli Usa l’Italia in bottiglia ha avuto ottimi risultati in tutte le
economie emergenti: Russia 33%, Paesi Opec 24,9%, America Latina 23,1% e economie dinamiche dell’Asia 18,1% di export. Ecco spiegato il primo motivo del perché l’export italiano tira
su quei mercati. E perché in Italia invece il vino è plafonato nei suoi consumi.

Ma vi è un secondo fattore che va tenuto in conto: ed è il cambio delle monete. Il Super-euro comincia a preoccupare. Ma per il vino italiano è una preoccupazione fondata?
Probabilmente solo sul mercato statunitense e sui mercati sudamericani. Per il mercato europeo l’apprezzamento dell’euro è ininfluente, quindi nessuna tensione sul mercato continentale,
salvo un lieve contraccolpo in Gran Bretagna e in Svizzera. E salvo che il Super-euro non rallenti la crescita del continente per un calo generalizzato delle esportazioni. Nel resto del mondo
il Super-Euro è solo relativamente super. Basti pensare che il rublo, in forza dell’incremento dei prezzi di petrolio e gas naturale, si sta apprezzando più dell’euro; lo stesso
vale per la capacità di generare un delta positivo tra il cambio dello yuan (la moneta cinese) e il dollaro. Lo spread di cambio tra le due monete per i cinesi è vantaggioso. Il
meccanismo è semplice: i cinesi vendono in dollari e comprano in yuan. L’incremento dei volumi della loro economia più che compensa la perdita di valore del dollaro sull’euro, e
quindi le possibilità che essi divengano forti importatori di prodotti d’eccellenza restano intatte. L’incremento dei prezzi del petrolio oltretutto compensa la perdita di peso del
dollaro sull’euro nei mercati arabi, che solo apparentemente non sono consumatori di vino. Buona parte dell’intermediazione di vino per il mercato del sud-est asiatico passa infatti per Dubai
ed è singolare notare come le rotte del greggio intersechino le rotte del vino.

Si potrebbe affermare dunque, con un minimo di fondamento, che oggi i vignaioli per sapere dove andare a vendere le loro bottiglie devono tenere d’occhio più gli incrementi del Pil e i
corsi delle valute che non gli indicatori psicologici di mercato (la propensione al consumo di vino, per capirci). Perché ormai il mercato del vino di nuova generazione è
fortemente influenzato dall’andamento delle economie, dai corsi del petrolio e dai cambi valutari.

Ma tutto questo è senza conseguenze? Assolutamente no. Si rischia infatti che il paradosso italiano si dilati e che cambi radicalmente la geografia della nostra produzione di
qualità. Potrebbe accadere – e in parte già accade con altri prodotti di alta qualità dell’agroalimentare nazionale – che il mercato italiano diventi permeabile dai vini
del Nuovo mondo e che il vino italiano per gli italiani diventi troppo caro. Con il paradosso che faremo in Italia vino per i Paesi ricchi (o comunque a più forte espansione economica) e
berremo in casa nostra il vino prodotto da quei Paesi che, sfruttando il vantaggio competitivo delle loro monete deboli e i minori costi produttivi, finiranno per diventare i fornitori della
nostra mensa quotidiana. Perciò per le cantine italiane si pone una sfida alta: difendersi in casa e puntare a servire i mercati che possono pagare. Qualcuno dei nostri produttori si
è già attrezzato: delocalizza in Paesi a costi più bassi per produrre lì il vino che ci farà bere ogni giorno e continuerà a produrre in Italia il vino
destinato a servire le economie ricche. E’ uno scenario che è dietro l’angolo.

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