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Il ritratto degli italiani: restiamo una società «mucillagine»

Il ritratto degli italiani: restiamo una società «mucillagine»

By Redazione

 

Roma – Alla crisi ci crediamo e non ci crediamo. Per alcuni si sfiammerà presto, per altri il tracollo durerà a lungo. Questa diversa percezione riflette l’assenza
di una consapevolezza collettiva, a conferma del fatto che restiamo una società «mucillagine». Come affermato lo scorso anno, il contesto sociale è
condizionato da una soggettività spinta dei singoli, senza connessioni fra loro e senza tensione a obiettivi e impegni comuni. Questa regressione antropologica, con i suoi
pericolosi effetti di fragilità sociale, è visibile nel primato delle emozioni, nella tendenza a ricercarne sempre di nuove e più forti, al punto che «la
violenza o lo stravolgimento psichico si illudono di avere un bagliore irripetibile di eternità, mentre nei fatti sono solo passi nel nulla».

È stato l’anno delle paure. Su questa base si sono moltiplicate piccole e grandi paure (i rom, le rapine, la microcriminalità di strada, gli incidenti provocati da
giovani alla guida ubriachi o drogati, il bullismo, il lavoro che manca o è precario, la perdita del potere d’acquisto, la riduzione dei consumi, le rate del mutuo). In un anno
elettorale, la politica ha trovato vantaggioso enfatizzare le paure collettive e le promesse di securizzazione (dai militari per le strade alla social card per i meno abbienti), con
ciò finendo per generare una più profonda insicurezza, una ulteriore sensazione di fragilità.

La crisi finanziaria internazionale: la «segnatura» c’è stata. La crisi ci ha segnato, ed è verosimile attendersi per il prossimo anno ulteriori fasi di
flessione. Ma ha determinato un salutare allarme collettivo. Si tratta ora di vedere se il corpo sociale coglierà la sfida, se si produrrà una reazione vitale per
recuperare la spinta in avanti, sebbene siano in agguato le «italiche tentazioni alla rimozione dei fenomeni, alla derubricazione degli eventi, all’indulgente e rassicurante
conferma della solidità di fondo del sistema».

Non basta una reazione puramente adattiva. Rispetto a una crisi che ci segna in profondità, sarebbe deleterio adagiarsi sulla speranza che tutto si risolverà nella
dinamica della lunga durata, grazie alle furbizie adattive che ci contraddistinguono da decenni e secoli. Rischieremmo che «la lunga durata diventi luogo del rattrappimento e
della rinuncia ad un ulteriore sviluppo». Rischieremmo: l’appiattimento su parole d’ordine non più universalmente condivise (il mercato, l’occidentalizzazione, la
globalizzazione, l’Europa allargata); di continuare a vivere individualisticamente; l’acutizzarsi di un disagio sociale legato all’esaurimento delle sicurezze di base garantite da un
welfare oggi in crisi e dalle attuali prospettive o paure di impoverimento; gli effetti ulteriori degli squilibri antichi della nostra società (il sottosviluppo meridionale,
l’inefficienza dell’amministrazione pubblica, il drammatico potere della criminalità organizzata). Rischieremmo forse un collasso per implosione su noi stessi, per cui non
possiamo lasciar cadere la sfida, l’allarme, la paura che la contingenza attuale ci propone.

Verso una seconda metamorfosi. Le difficoltà che abbiamo di fronte possono avviare processi di complesso cambiamento. Attraverso un adattamento innovativo (exaptation, per
usare un termine mutuato dalla biologia), cioè non automatico ma reso vitale e incisivo da fattori esogeni e leve di trasformazione, possiamo spingerci verso una seconda
metamorfosi (dopo quella degli anni fra il ’45 e il ’75) che forse è già silenziosamente in marcia. La nostra seconda metamorfosi sarà il risultato della
combinazione dei «caratteri antichi della società» con i processi che fanno da induttori di cambiamento. Tra questi vi sono: la presenza e il ruolo degli immigrati,
con la loro vitalità demografica e la moltiplicazione emulativa di spiriti imprenditoriali; l’azione delle minoranze vitali già indicate lo scorso anno, specialmente dei
player nell’economia internazionale; la crescita ulteriore della componente competitiva del territorio (dopo e oltre i distretti e i borghi, con le nuove mega conurbazioni urbane); la
propensione a una temperata gestione dei consumi e dei comportamenti; il passaggio dall’economia mista pubblico-privata a un insieme oligarchico di soggetti economici (fondazioni,
gruppi bancari, utilities); l’innovazione degli orientamenti geopolitici, con la minore dominanza occidentale e la crescente attenzione verso le direttrici orientali e meridionali.

Mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale. Le classi dirigenti (non solo quella politica) tendono invece ad automatismi di segno opposto: accorciano i raggi delle
decisioni, le riservano a sfere di responsabilità molto ristrette, le rattrappiscono al breve termine, se non addirittura al presente. «In poche stanze si possono prendere
provvedimenti e iniziative planetarie, ma poi la realtà segue opzioni, comportamenti, paure di tipo diffuso, su cui sarebbe deleterio avviare una rincorsa punto per punto (una
Cig qua, una rottamazione là) che non riuscirà mai a far recuperare una dinamica fatta da tanti soggetti, l’unica dimensione di cui abbiamo bisogno per uscire
collettivamente dalla crisi». Per la società italiana resta l’imperativo: «mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale».

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