Materie prime agricole: la crisi si può aggravare
27 Marzo 2008
In occasione del Forum di Taormina della Confagricoltura, Federalimentare ribadisce ancora una volta l’importanza del rapporto industria-agricoltura (l’industria alimentare italiana trasforma
infatti il 70% della produzione agricola nazionale).
Quando le crisi si prolungano, le conseguenze si aggravano. E’ quanto sta succedendo sul fronte dell’approvvigionamento di materie prime agricole: un fronte aperto all’inizio dell’estate scorsa
e che non accenna ad allentare la morsa.
In una situazione di mercato interno flettente, le aziende non riescono a scaricare per intero i maggiori costi di produzione. Le conseguenze sulla competitività e sulla sopravvivenza
stessa dell’industria alimentare italiana rischiano così di farsi pesanti. Ne esce, in base ai calcoli e alle proiezioni effettuate da Federalimentare e Ismea, una forte
vulnerabilità del 22-23% del fatturato medio del settore. Ben 8 aziende alimentari su 10 – soprattutto piccole e medie – sarebbero a rischio.
Nell’alternanza di fattori strutturali ed elementi congiunturali, il futuro della filiera agroindustriale si gioca attorno a una manciata di elementi di fatto «globalizzati»:
– una revisione più o meno radicale della Politica agricola comune,
– gli effetti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura,
– la disponibilità e i prezzi delle principali materie prime,
– la crescente richiesta di prodotti agricoli da parte dei Paesi in via di sviluppo,
– il maggiore ricorso ai bio-carburanti in risposta all’aumento del costo dei prodotti energetici.
Proprio in materia di biocarburanti Federalimentare fa proprie le preoccupazioni espresse recentemente dal Presidente di Nestlè Peter Brabeck il quale teme che il crescente ricorso ai
raccolti alimentari per produrre biocarburanti possa mettere a rischio le forniture di cibo mondiali e le risorse idriche: per produrre un litro di biodiesel infatti occorrono l’equivalente di
circa 4000 litri di acqua ed un ettaro di terra.
Per ciò che riguarda il petrolio, il cui costo costituisce l’ago della bilancia per determinare il prezzo dei prodotti energetici (combustibili, lubrificanti, energia elettrica), dopo i
picchi oltre i 100 dollari a barile raggiunti di recente, si prevede un assestamento negli anni successivi, restando comunque a livelli medio-alti. Allo stesso modo cresceranno in maniera
sostenuta i prezzi di fertilizzanti e concimi. Infine, effetti di trascinamento dell’impennata dei prezzi dei cereali sono attesi anche per i semi oleosi, e attraverso i mangimi, per i listini
dei prodotti zootecnici.
La soluzione – come dice il Consigliere Incaricato di Federalimentare per l’Ambiente e l’Agricoltura Luigi Scordamaglia – deve essere equilibrata, senza generare ulteriori tensioni sui prezzi.
Una cosa è certa, aggiunge Scordamaglia, «il primato delle quantità prodotte, della food security (inteso come garanzia di livello minimo di autoapprovvigionamento) acquista
centralità rispetto a ogni altra considerazione; le varie teorie PAC delle «multifunzionalità» e dei «secondi pilastri», del «piccolo ma buono»
se esasperate perdono peso di fronte a queste esigenze primarie. La «multifunzionalità» se slegata dalla produzione diventa un’«astrazione fragile» che rischia di
diventare solo retorica in assenza di una produzione alimentare europea. Non fa il bene né del consumatore né del Paese chi pensa che l’unico futuro per i nostri qualificati e
professionali imprenditori agricoli debba essere soltanto quello di trasformarsi in venditori ambulanti di mercati locali o in operatori ecologici».
In conclusione senza una netta e concreta inversione di rotta, l’industria alimentare italiana e con essa tutta la filiera agroalimentare italiana, appesantita da queste dinamiche e da inutili
e fuorvianti contrapposizioni ideologiche, dopo il buon passo mantenuto negli anni scorsi, rischia di crescere a ritmi meno sostenuti rispetto alle altre industrie e ai servizi. Un primo
campanello di allarme si è già fatto sentire in chiusura del 2007, con un calo di produzione del -0,6% a parità di giornate lavorative: un segnale senza precedenti per un
settore a consumi rigidi e anticiclico come l’alimentare.