Social eating: “pirati” dei fornelli?

19 Giugno 2015
Si chiama Social Eating: una persona mette a disposizione la propria cucina e le proprie pietanze, a volte solo per il gusto di mangiare in compagnia, più spesso come forma di commercio.
Non sorprende allora, che siano nate piattaforme proprio per sfruttare tale tendenza, come l’italianissima Gnammo.
E forse (purtroppo) non dovrebbe sorprendere anche che il social eating sia entrato nella classica ragnatela burocratica all’italiana.
Tutto parte dal Ministero dello Sviluppo economico, pronto a rispondere ad una domanda di una Camera di Commercio relativa appunto alla nuova moda di mangiare assieme.
Risposta degli esperti: chiunque voglia ospitare qualcuno a pagamento, deve essere munito di Scia (la preventiva dichiarazione di inizio attività) se non di autorizzazione del Comune, oltrechè dei documenti e permessi necessari in materia di edilizia, sicurezza e igienico sanitari previsti per l’esercizio dell’attività di somministrazione di cibo e bevande.
Alcuni adepti della nuova moda si sono dichiarati orgogliosamente “pirati”: continueranno a cucinare e mangiare assieme, senza nessuna della carte richieste.
Altri, più ragionevoli, mirano ai punti deboli del provvedimento: una casa non è un ristorante, ed il social eating è un attività salutaria, non professionale e non imprenditoriale. Forti anche del sostegno di Gnammo e delle sue istruzioni per l’uso, questi si limiteranno a pagare le tasse sugli incassi.
Più in generale, la sensazione è che la battaglia vada oltre il social eating, i fornelli ed i permessi.
Il vero nodo è la contrapposizione tra l’economia tradizionale, con i suoi mezzi potenti ma elefantiaci, e la sharing economy, con le sue potenzialità notevoli ma ancora inesplorate.
In questo mosaico d’interessi contrapposti, con il governo preso in mezzo tra tutela del presente e necessità, il Social eating, con i suoi fornelli (forse) clandestini, è solo un tassello.
Matteo Clerici