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Innalzamento dell’età pensionabile per le donne: i perché del no della Cgil

By Redazione

 

Roma – Nel dibattito che si è scatenato sull’età pensionabile un silenzio “regna assordante”, ovvero quello sulla vigente legislazione italiana,
la legge 903 del 1977, meglio nota come legge di parità di trattamento tra uomo e donna. È la segretaria confederale della Cgil, con le deleghe sul tema, Morena Piccini, a
cercare di fare chiarezza all’interno del dibattito sull’età pensionabile delle donne e a motivare il no della Confederazione ad un’ipotesi di aumento.

L’articolo 4 della legge sulla parità di trattamento, spiega Piccinini, “tuttora in vigore, ha stabilito, da ben 31 anni, che le lavoratrici, se vogliono, possono
continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini e ciò anche se hanno già maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia (60 anni di
età e 20 anni di contribuzione)”. Addirittura, rincara, “le lavoratrici del pubblico impiego possono continuare a lavorare come gli uomini del loro settore fino a 67
anni di età, in base a quanto stabilito dall’art.16, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 503 del 1992”.

Sulla base di questi riferimenti legislativi, Piccinini domanda: “Di quale discriminazione parliamo quindi?”. È, infatti, “singolare” che venga
interpretata come discriminatoria “una norma che è stata pensata e voluta proprio per agevolare le donne, offrendo loro un’opportunità in più, quella di
scegliere se continuare o meno a lavorare”. Perché “andare in pensione a 60 anni non è un obbligo ma soltanto un’opportunità in più per le
donne”. Discriminatorio e penalizzante sarebbe, al contrario, per Piccinini “costringere le lavoratrici a lavorare obbligatoriamente fino a 65 anni, tenendo conto che
già oggi l’età reale di pensionamento delle donne è più alta di quella degli uomini”. Non è un caso, ricorda la sindacalista che le donne
siano infatti quasi esclusivamente titolari di pensioni di vecchiaia mentre i lavoratori sono soprattutto titolari di quelle di anzianità.

La dirigente sindacale spiega che con la riforma previdenziale del 1995 era sta introdotta in Italia la possibilità del pensionamento flessibile con età 57 – 65
anni, uguali per uomini e donne. Un sistema “stravolto” dalla controriforma Maroni (legge 243 del 2004) che ha introdotto anche nel sistema contributivo l’età
pensionabile fissa: 60 anni per le donne, 65 anni per gli uomini. La Cgil, ricorda la segretaria confederale, ha sempre sostenuto la necessità di ripristinare la
flessibilità dell’età pensionabile: “perché un sistema contributivo senza flessibilità non ha un senso” e poi perché la
flessibilità in uscita è “l’unico strumento valido per coniugare una reale parità di trattamento tra uomo e donna con l’esercizio delle
opportunità individuali e della libera scelta” ed è anche l’unico strumento che permette “un vero innalzamento delle età medie di
pensionamento”.

Il problema vero è che a fronte di un risparmio sicuro sulle pensioni non è automatico che le risorse vengano utilizzate per le donne. Il timore è che possa
ripetersi quanto accaduto nel 1992 quando furono promessi servizi in cambio dell’aumento dell’età pensionabile delle donne: “tutte promesse non
mantenute”, chiosa Piccinini. Intanto l’età pensionabile è aumentata, ma i servizi non ci sono. Ma, soprattutto, come ci si può fidare di un Governo che
tra i primi atti vanta la cancellazione della legge 188/ 2006 fatta dal precedente Governo proprio per evitare i licenziamenti in bianco delle lavoratrici in caso di maternità?
Così come sulla detassazione degli straordinari, “che non favoriscono certo le lavoratrici”, o i tagli al fondo per la famiglia e quello operato alle risorse dei
Comuni che dovrebbero erogare i servizi? 

Inoltre, in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando, proporre di innalzare l’età pensionabile in questo momento “appare veramente paradossale: siamo
tutti consapevoli (o quanto meno dovremmo esserlo) che a pagare la crisi saranno soprattutto i soggetti più deboli, e quando diciamo soggetti deboli facciamo sempre
tutti riferimento ai giovani, alle donne e ai precari. Non dimentichiamo che molte donne sono anche giovani e sono la stragrande maggioranza dei precari!”.

E contro chi “snocciola” cifre come l’onorevole Emma Bonino (solo il 46% di donne occupate in Italia contro una media del 60% in Europa, solo 18% dei bimbi nei nidi, salari rosa
inferiori del 30% a parità di mansioni con gli uomini, 3,5 milioni di donne inattive perché devono svolgere i lavori di cura) per sostenere la necessità
dell’innalzamento dell’età pensionabile, Piccinini replica: “le cifre le conosciamo anche noi e proprio per questo ci appare veramente singolare che si
ritenga prioritario affermare il principio della parità di trattamento tra uomo e donna, togliendo alle donne l’unica cosa positiva che hanno nell’attuale
società e cioè la possibilità di scegliere se andare in pensione a 60 anni o continuare a lavorare”.

“Tutti gli studi della Commissione europea – conclude Piccinini – confermano che le donne in Italia e in Europa studiano di più, ma vengono assunte meno, hanno meno
opportunità di lavoro, a parità di lavoro hanno retribuzioni più basse, hanno meno opportunità di carriera o sono addirittura costrette al licenziamento in
caso di maternità, hanno lavori saltuari, precari, discontinui, part-time, hanno a loro completo carico il lavoro di cura, e altro ancora: a fronte di questa situazione
innegabile come si fa a dire che l’unica soluzione possibile per garantire pari opportunità alle donne è quella di costringerle a lavorare cinque anni di più?
E nella situazione di crisi in cui ci troviamo?”.

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