Clima che cambia: E’ vero che i vitigni antichi resistono meglio?

13 Maggio 2019
Clima che cambia, effetti sulle coltivazioni viticole
Slittamento della stagionalità, variabilità dei dati canonici, eliminazione della frequenza ciclica degli eventi, picchi più alti e assai variabili.
E’ vero che i vitigni antichi resistono al cambiamento climatico?
E’ giusto recuperare vecchie viti per far fronte a nuovi impianti e allevamenti. La foglia della vite è una macchina perfetta per riciclare la CO2? C’è fermento nel mondo dei viticoltori, molto meno fra i commercianti di vino. I vitigni internazionali più a rischio? L’italia sta meglio della California, dicono gli esperti.
Ho recentemente letto in più di una rivista mondiale ( una americana e una australiana) specializzata nel pubblicare ricerche scientifiche, studi universitari, sperimentazioni di importanti scienziati e docenti di vitivinicoltura sparsi nel mondo che…” per aggiustare il tiro e/o rendere meno incidenti e invadenti gli effetti del “climate change” abbiamo solo 10-15 anni al massimo di tempo”.
Una affermazione molto-molto pesante visto la origine e la fonte, ma quanto il mondo normale ne è a conoscenza, sa il perché, ci sta ragionando, ipotizza alcune contro misure? Non sto parlando di “foglie di fico” che non servono a un gran che, come per esempio “ le domeniche a piedi” o le “chiusure limitate” dei centri storici delle città o la improvvisa “guerra alle auto diesel”.

Penso invece a contromisure glocal, a interventi strumentali e strutturali orizzontali, ad ampio raggio, ben oltre i confini amministrativi di una città, di una regione, di uno Stato, di una alimentazione infiammabile di un motore piuttosto che un altro.
Una altra frase che mi ha colpito è stata” …o cambiamo le abitudini nostre, o il clima cancellerà il nostro modus vivendi”.
Lasciamo perdere i massimi sistemi (NB: spero che i politici veri, gli statisti come si diceva una volta, ci stiano pensando oltre alle piccole soluzioni ordinarie e improduttive che ci stanno propinando. Spero anche che i cittadini-elettori non si mettano in mezzo sbagliando anch’essi chi sostenere) ma invece parliamo del banale vino, una marginalità per molti, un effimero gusto rispetto ai macro-sistemi e macro-problemi che sicuramente arriveranno se non si prendono drastiche misure.
Sono stato invitato a Parigi per il Cop21 e ho partecipato, sempre invitato, anche a Kyoto: la mia impressione è che tutti hanno ben chiaro cosa sta succedendo e perché, ma purtroppo ci sono “figure mondiali potenti” che tirano l’elastico, vogliono dilazionare e segmentare i problemi, sperano in una rivoluzione naturale e autonoma della natura stessa, credono che pochi interventi possano aiutare.
Sicuramente anche solo negli ultimi 200.000 anni di vita del pianeta terra ( qualcuno parla degli ultimi 10.000), già sono avvenute glaciazioni e desertificazioni, stravolgimenti globali, climi estremi, ma a che costo e soprattutto “di quale origine”? Spero che nessuno faccia spallucce.
Ma veniamo alla vite, al vino, alla viticoltura. E’ recente l’impegno di alcune cantine del Penedes dove si produce lo spumante Cava, nella regione spagnola della Catalogna, di riscoprire, ricercare, tutelare vecchi vitigni e vecchi vini che sembravano estinti proprio perché dimostrerebbero un forte adattamento alle ampie e improvvise variazioni climatiche.
Sono stati definiti, alla fine del 1700, vitigni precoci e vitigni tardivi: sono una decina di cantine, piccole e famigliari, storiche, tutte con vigneti in proprietà che si sono e si stanno staccando dal Consorzio di tutela del Cava, proprio alla ricerca di una nuova (o vecchia) strada viticola.
Il pH nel vino è fondamentale, soprattutto se spumeggiante; è il fattore che segna l’acidità delle uve e del mosto, quel parametro che dà equilibrio che consente di fare un vino che dura, senza asperità e ogni varietà di fronte al cambio climatico o a un clima diverso modifica il “suo pH” in modo diverso.
Sembra che un cambio di clima, ovvero di uno spostamento in certi continenti e in certe ampie aree produttive vitivinicole degli indici temperatura e piovosità e durata del periodo vegetativo, comporta un forte cambio delle caratteristiche dell’uva, quindi del vino, quindi anche dei disciplinari di produzione dei vini Docg, Doc.
E’ il caso di regioni in Cile come in Borgogna, in Toscana come nel Penedes per cui le “zone vocazionali” o anche solo le aree coltivabili a viti diminuiranno dal 70 al 25% rispetto alle attuali nell’arco di 30 anni, cioè di un ciclo di vita di una pianta di vite produttiva, all’incirca.
Queste vigne stanno affrontando climi sempre più caldi e più asciutti. In allarme anche i viticoltori della California e dell’Australia che vedono “anticipare” sempre più l’ideale epoca di raccolta, ma non tutti i vitigni danno le stesse “qualità” difronte a una riduzione della fase corretta vegetativa o di un anticipo eccessivo.

Se le fasi tradizionali vegetative della vite necessitano da 140 a 160 giorni, indicativamente, per dare la migliore maturazione, è evidente che 120 giorni non sono sufficienti oppure creano stress alla pianta che “corre troppo”.
Ecco quindi che si deve correre al riparo
In molte parti del mondo la risposta che sta girando è molto semplice: il clima che sta arrivando non è adatto alle varietà di vite che stiamo utilizzando, che fare? E’ evidente che per certe varietà, in certe aree e in certi terreni, la precocità di maturazione dell’uva può anche essere un vantaggio, ma sono poche.
Le aree umide risentiranno di più della precocità rispetto a quelle già aride o secche da tempo. Ad ogni modo molti centri di ricerca stanno studiando e sperimentando la materia, soprattutto il legame vitigno e cultivar, in rapporto al clima e alla qualità conforme e regolare del vino ottenuto: il clima non può cambiare la qualità o il gusto o la storia di un Aoc Borgogne, dicono i francesi.
C’è qualche ricercatore che sostiene anche che i vitigni ancestrali, antichi (tutti quelli pre-fillossera europea tanto per intenderci), siano più adattabili ai nuovi climi, che assomigliano – come sostiene uno studio della scuola di viticoltura di Changins in Svizzera – a quelli del tardo Medioevo tendenzialmente arido-secchi per lunghi periodi estivi e invernali nella zona del Mediterraneo settentrionale.
Inoltre uno studio ecologista dell’università di Harvard sostiene che la quantità genetica di ogni varietà-cultivar di vite è molto piccola, ma le differenze di sviluppo stagionale sono ampissime anche di 35-40 giorni in certi areali.
Venendo all’Italia, noi abbiamo centinaia di vitigni diversi, anche diversi per piccoli dettagli e su di essi bisogna puntare con la ricerca viticola proprio per far fronte alle nuove necessità, climatiche temporali, qualitative e anche sanitarie della vite contro malattie e malanni, ma anche per mantenere alta, e la stessa, qualità e identità dei vini.
Un Barolo non può diventare un Brunello, e neppure un Lambrusco o un Gutturnio. L’OIV, l’organizzazione mondiale della vie e del vino, sta già lavorando in materia: forse i vitigni internazionali (una decina) sembrano i più sensibili al cambio climatico, per questo che i viticoltori in California, in Australia, in Sud Africa sono già molto preoccupati, soprattutto per i vitigni precoci, quelli di più recente registrazione.
Se andiamo a vedere molti vitigni storici italiani, antichi (anche chiamati autoctoni perché da molte generazioni già presenti), si sono adattati a vari contesti pedo-ambientali differenti già da anni, mentre i vini più a rischio sono quelli super, i cru, tanto per intenderci, perché il complesso sistema in equilibrio, si altera. Occorre farsi domande, e darsi risposte, diceva il buon Marzullo!
Giampietro Comolli
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Giampietro Comolli
Economista Agronomo Enologo Giornalista
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Editorialista Newsfood.com
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