La lezione del San Raffaele: quando un’inefficienza locale mette in crisi il modello pubblico–privato

La lezione del San Raffaele: quando un’inefficienza locale mette in crisi il modello pubblico–privato

By MM

Il mito del modello lombardo davanti allo specchioMilano, 10 dicembre 2025

In Lombardia la narrazione sanitaria ha sempre trattato il San Raffaele come il simbolo dell’incontro virtuoso fra pubblico e privato. Tecnologia d’avanguardia, ricerca di altissimo livello, convenzioni capaci di portare innovazione dentro il servizio sanitario universale: un racconto identitario che ha formato per anni l’immaginario collettivo.

Eppure lo stesso ospedale, qualche anno fa, arrivò sull’orlo del collasso con un miliardo di euro di debiti. È un dettaglio scomodo, ma necessario. Ogni volta che si invoca la parola “modello”, bisognerebbe ricordare anche ciò che non ha funzionato.

Oggi, ancora una volta, il San Raffaele ci costringe a guardare la realtà oltre la retorica.

Napoletano: la tecnologia non basta senza continuità del personale

La prima voce che emerge è quella di Margherita Napoletano, coordinatrice RSU del San Raffaele. La sua analisi ha un tratto netto: il problema vero non è la tecnologia, ma la continuità organizzativa.

Napoletano descrive turni ricuciti all’ultimo momento, personale interno affiancato da lavoratori provenienti da cooperative, reparti che cambiano volto da un mese all’altro. È una discontinuità che diventa fragilità clinica, perché la qualità dell’assistenza non può poggiare su professionisti che ruotano senza stabilizzarsi.

Il nodo economico amplifica tutto. Nei reparti privati accreditati, a parità di carico assistenziale, gli infermieri guadagnano spesso meno che nel pubblico. E infatti molti si spostano verso strutture pubbliche per sopravvivenza economica, non per scelta professionale.

Napoletano lo riassume con un’immagine severa: non si costruisce eccellenza se ogni mese il reparto deve ricominciare da capo.

Gentile (FIALS Lombardia): la selezione del personale è diventata il punto debole della Regione

Alla prospettiva interna si aggiunge quella più ampia di Roberto Gentile, Segretario generale di FIALS Lombardia. Per Gentile, ciò che accade al San Raffaele non è un incidente isolato, ma l’esito di un reclutamento disordinato, frammentato, spesso esternalizzato senza adeguati processi di verifica.

Negli ultimi mesi molte aziende hanno fatto ricorso a personale fornito da cooperative senza procedure uniformi di valutazione clinica. Il risultato è una vulnerabilità sistemica: reparti dove la qualità dell’assistenza dipende più dal tipo di contratto che dalla competenza del professionista.

Gentile avverte da tempo che la Regione ha privilegiato la rapidità degli appalti a scapito della solidità dei controlli. È un cortocircuito che mina proprio l’elemento più delicato del modello lombardo: la sicurezza del paziente.

Il messaggio è nitido: senza un presidio pubblico forte sugli standard, il modello pubblico–privato perde la sua credibilità.

Il grande interrogativo: il privato migliora la qualità della vita?

La Lombardia ha sempre sostenuto che il privato accreditato alzi la qualità complessiva del sistema. Per anni è stato vero: l’innovazione correva più veloce, la competizione spingeva tutti a migliorare, le specializzazioni crescevano.

Oggi però la domanda si riformula. Il privato migliora la qualità della vita? La risposta è sì, ma solo se il pubblico fa davvero il suo mestiere.

Il privato funziona quando il pubblico governa con regole chiare, controlli seri, formazione stabile, contratti sensati. Il privato non funziona quando diventa il tappabuchi di carenze strutturali, quando colma i vuoti di organico con personale non verificato, quando gli infermieri migrano verso il settore pubblico per ragioni salariali e non per vocazione.

La qualità della vita è un concetto elegante, ma fragile. E si rompe facilmente quando un sistema sanitario insegue l’emergenza invece di progettare il futuro.

La vera lezione del San Raffaele

Il San Raffaele rimane il luogo simbolo del modello misto lombardo. Tuttavia oggi restituisce una lezione meno celebrativa e più necessaria: l’eccellenza non è sostenibile se manca l’organizzazione.

Non è una crisi clinica. Non è una crisi della ricerca. È una crisi della macchina organizzativa: turni instabili, reclutamento incerto, percorsi di formazione disomogenei, controlli insufficienti. Quando traballa l’organizzazione, traballa tutto il resto: pubblico, privato, pazienti e, soprattutto, quella qualità della vita che la Lombardia ha sempre messo al centro della propria visione.

La Regione può continuare a essere un laboratorio d’innovazione sanitaria. Ma per farlo deve ripartire dalle fondamenta: personale stabile, assunzioni responsabili, controlli rigorosi, governance reale.

Il modello pubblico–privato rimane valido. Ma ha una condizione imprescindibile: che qualcuno lo governi davvero.

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