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Risoluzione di diritto del rapporto di lavoro a seguito condanna

By Redazione

Con sentenza del 26 settembre 2007, n. 20159, la suprema Corte di Cassazione ha giudicato eccessivo il licenziamento in presenza di sentenza penale di condanna, emessa in primo grado, anche se
questa sarebbe sufficiente di per sè a determinare la lesione del vincolo fiduciario idonea a giustificare il recesso.

Per la Corte di Cassazione le motivazioni dell’azienda non meritano accoglimento in quanto il giudizio sulla correttezza del licenziamento spetta ai giudici di merito.

Fatto e diritto
Un responsabile del magazzino ricambi era stato licenziato per avere ordinato il prelievo di materiale con avviamento all’esterno di merce senza riscontri contabili nelle giacenze di deposito
e, quindi, senza l’osservanza delle prescritte procedure.
Il licenziamento veniva annullato del Pretore di Roma, perché ritenuto sproporzionato rispetto alla mancanza e la relativa statuizione passava in giudicato a seguito della sentenza della
stessa Corte di Cassazione.
La società, dunque, aveva provveduto a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in ottemperanza alla sentenza di primo grado, ma lo aveva licenziato nuovamente, allorché il
procedimento penale – iniziato a seguito di denuncia querela della società nei confronti del dipendente per appropriazione indebita di 189 pezzi di ricambio per un valore di oltre sedici
milioni di lire – si era concluso, in primo grado, con una sentenza di condanna a pena detentiva e pecuniaria.
Il licenziamento terminava, in primo grado, con la pronuncia di rigetto, la quale veniva riformata dal locale Tribunale in sede di appello, che, con la sentenza non definitiva dichiarava
illegittimo il recesso e disponeva la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro con le pronunzie consequenziali, disponendo la prosecuzione del giudizio sulla domanda di risarcimento
del danno biologico richiesto dal dipendente.
L’intervento del Tribunale
Il Tribunale aveva rilevato preliminarmente che dalla lettera di licenziamento emergeva che questo era stato intimato esclusivamente sulla base dell’art. 153 del CCNL, il quale dispone “la
risoluzione di diritto e con gli effetti del licenziamento in tronco, qualora la condanna risulti motivata da reato commesso nei riguardi del datore di lavoro o in servizio”. Il tribunale,
analizzando il testo contrattuale, aveva stabilito che detta disposizione prevede il passaggio in giudicato della sentenza penale e che la mera emanazione di sentenza di condanna in primo grado
non era idonea a giustificare il recesso.
Le perizie tecniche
Frattanto, espletate due consulenze mediche sulla persona del dipendente, lo stesso Tribunale di Roma rigettava la domanda di condanna al risarcimento del danno biologico presentata dal
dipendente.
Infatti il Tribunale negava, sulla scorta delle perizie tecniche, il nesso di causalità tra le vicende che avevano caratterizzato il rapporto di lavoro e lo stato gravemente depressivo
del dipendente stesso che era dovuto allo squilibrio di una situazione patologica preesistente.

La decisione della Corte di Cassazione
La Cassazione ha rigettato sia il ricorso del dipendente che quello dell’azienda.
Il ricorso dell’azienda
Secondo la Cassazione, l’azienda aveva dedotto le argomentazioni tramite i consulenti, ma il giudizio sulla correttezza del licenziamento spetta ai giudici di merito: infatti, per la
Cassazione, risulta incongruo il licenziamento in presenza di sentenza penale di condanna, emessa in primo grado, anche se, dimostrata la giusta causa, sarebbe sufficiente a determinare la
lesione del vincolo fiduciario idonea a giustificare il recesso. La Corte, inoltre, ha chiarito che i consulenti, in luogo di procedere all’individuazione del dato clinico e verificare
resistenza del nesso di causalità con gli accadimenti dedotti, avrebbero reiteratamente dimostrato di voler valutare e giudicare le vicende lavorative, avendo fatto riferimento alla
“supposta persecuzione del periziando da parte dell’azienda”, il che non rientrava però nell’incarico di loro competenza, dovendo i comportamenti aziendali essere verificati solo dal
giudice.
Inoltre i disturbi della personalità, riscontrati dai consulenti come antecedenti ai fatti, avrebbero dovuto manifestarsi già nella giovinezza, mentre prima delle vicende di causa
il dipendente sarebbe stato esente da disturbi psichici, essendo peraltro indubbia la capacità disturbante e destabilizzante delle vicende costituite da due licenziamenti e dai
procedimenti penali che avevano visto il dipendente stesso imputato.
Per la Cassazione, infine, il Tribunale avrebbe dovuto accertare la esistenza di un comportamento illegittimo e persecutorio da parte del datore di lavoro e non già rimetterlo ai
consulenti;
Il ricorso del dipendente
La Cassazione ha stabilito che non è vero né che i giudici di merito avevano omesso di accertare il carattere illegittimo e persecutorio degli atti posti in essere dal datore di
lavoro, né che avessero rimesso la relativa verifica ai consulenti. Al contrario, la Corte ha stabilito che la illegittimità del comportamento datoriale è stata
implicitamente presupposta nel momento in cui è stata ammessa la consulenza medica, intesa ad accertare il nesso tra il danno allegato dal lavoratore e quel comportamento,
giacché, che ove di questo fosse stato negata la illegittimità, la consulenza sarebbe stata del tutto inutile.

Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 20159 del 26 settembre 2007
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