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Mansioni superiori di due livelli nel pubblico impiego

By Redazione

Con la sentenza dell’11 dicembre 2007, n. 25838, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che, se al dipendente pubblico sono state assegnate mansioni superiori, anche di due
livelli, alla categoria di inquadramento, egli ha diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente in base a quanto disposto dall’art. 36 della Costituzione. Le Sezioni Unite della Corte
di Cassazione risolvono così il contrasto degli esistenti e contrastanti orientamenti giurisprudenziali richiamando anche una sentenza al riguardo della Corte Costituzionale.

Fatto e diritto – Ad un impiegato regionale, inquadrato nella VII qualifica funzionale, in seguito alla collocazione quiescenza del precedente titolare, era stato affidato il compito di
responsabile e dirigente di un servizio, che questi aveva effettuato per un periodo di tempo (svolgendo mansioni superiori) senza che gli fosse stato corrisposto alcun incremento
retributivo.
Lo stesso, quindi, aveva presentato ricorso al giudice del lavoro rivendicando le differenze retributive per le mansioni di due livelli superiori rispetto alla categoria in cui era
inquadrato.
Il giudice del lavoro emetteva una sentenza con la quale accoglieva la domanda dell’impiegato e condannava la Regione al pagamento delle differenze retributive richieste. Tale sentenza era poi
stata confermata dalla Corte d’Appello e la Regione aveva presentato ricorso in Cassazione.

La decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione – La sentenza emanata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione parte dagli orientamenti della
giurisprudenza che hanno riconosciuto l’applicabilità anche ai dipendenti pubblici delle norme dettate dall’art. 36 della Costituzione in ordine al riconoscimento di una retribuzione
proporzionata e sufficiente. La stessa, però, ha dovuto superare gli orientamenti negativi di parte della stessa giurisprudenza amministrativa che non riteneva applicabile ai dipendenti
pubblici il citato art. 36, in quanto in contrasto con altre norme di pari rilevanza costituzionale (articoli 97 e 98 della stessa Costituzione). Secondo tale orientamento, “il rapporto di
pubblico impiego non può essere in alcun modo assimilato ad un rapporto di scambio e dovendosi, anche ai fini del controllo della spesa, rispettare l’esigenza di conservazione di un
assetto della pubblica amministrazione rigido e trasparente, espressione della quale è quella della supremazia del parametro della qualifica su quello delle mansioni, sicché in
una siffatta ottica ostavano all’applicabilità dell’art. 36 Cost. pure le norme codicistiche dell’art. 2116 cc. e 2041 cc”.
Fortunatamente per gli impiegati, un’altra parte della giurisprudenza amministrativa aveva al contrario ammesso che le differenze retributive per mansioni superiori vanno riconosciute al
lavoratore sin dal momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 387/1998 e che “è consentita la trasposizione di regole privatistiche nell’area del pubblico impiego”.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno così avuto modo di dirimere la questione ed hanno affermato che l’art. 2126 del c.c. (per cui il diritto alla distribuzione permane anche se il
lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro) si deve applicare anche nei rapporti dei dipendenti del pubblico impiego. Secondo la Cassazione,
da ciò deriva il fatto che al pubblico dipendente “devono essere riconosciute le prestazioni retributive e previdenziali”.
Peraltro, le Sezioni Unite, a conforto della loro tesi, hanno richiamato il disposto della Corte costituzionale che ha sostenuto la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego
dei principi dettati dall’art. 36 della Costituzione, specificando al riguardo che detta norma “determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della
quantità del lavoro effettivamente prestato” a prescindere dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori.

Suprema Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 25838 dell’11 dicembre 2007

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