IL PANINO DEL PO… DUE FETTE DI PANE GROSSO E BASTA
UNICA ECCEZIONE: IL SEMOLINO NON CERTO IL PANINO ALL’OLIO E AZIMO
LA TRADIZIONE A PIACENZA E’ QUELLA DEL PANETTO CREATO DA DUE FETTE DI PANE GROSSO, DETTO “TRECCIA”
LA “TRECCIA” E’ IL PANE IDEALE PER COPPA, PANCETTA, FIOCCO, SPALLA, CULATELLO
Lungo il fiume Po non c’è una antica tradizione per la polenta (interesse recente) come nelle zone montane in Lombardia, Veneto e Trentino, ma per il pane salato e grosso. A parte il delta del fiume e la ansa torinese che hanno tradizione del pane “leggero” sottile, croccante, asciutto, poco lievitato come i grissini e la coppia… da Asti a Reggio Emilia – come un po’ per la storia della pasta ripiena di carne o verdure o ortaggi o formaggi – c’è la tradizione consolidata da secoli del “pane grosso”.
E’ vero che Bacchelli scrivendo “Il mulino sul Po” ha testimoniato quanto sia stretto lungo il fiume PO il legame fra l’alimentazione e la produzione di farine e pane. Basta prendere il tratto “Pavia-Ferrara” e già si scopre che si passa dalla “micca gigante” alla “leggera coppia”.
Addirittura Pavia produce il “miccone o micca” che raggiunge anche i 4 kg di peso a pezzo. I cereali bianchi, e nobili, davano il pane bianco, quelli più grezzi e misti davano il pane grigio o nero, soprattutto nelle case dei più poveri.
Anche Piacenza ha la sua storia antica del pane, antichissima, connessa ai tre prodotti del luogo: i salumi, i formaggi a pasta dura, i pesciolini. Tutti legati alla tradizione di unire il pane fatto in casa (una volta) con i prodotti naturali del territorio, certamente con la cultura e la coltivazioni del luogo.
Parlo della sponda emiliana, riva destra, quella dell’argine a sud. Giovanni Guareschi diceva una verità a metà: il Po non solo comincia a Piacenza, ma anche finisce… sia perché Piacenza rappresenta la esatta metà del tragitto dell’alveo fra sorgente e delta, ma anche perché la “groppa dell’asino” e la conca di isola Serafini rallentano la velocità dell’acqua, si adagia, si allarga e le oasi, le isole, le golene si fanno più grandi… e Piacenza domina il fiume dal piccolo pulpito del “sasso di San Sisto” dove i romani costruirono il castrum e i longobardi il primo castello e il convento di Angilberga. Piacenza è sempre stato un territorio dove si sono creati pani di vario tipo, dall’origine delle farine alle forme e metodi di produzione assai diversi.
E’ un territorio dove burro, strutto, olio d’oliva, acqua, latte, lievito madre, lievito di birra erano intercambiabili, con le dovute misure, scelte domestiche, contaminazioni.
Già al tempo dei Celti e dei Longobardi si producevano pani grandi molto lievitati oppure “schiacciate” utilizzando cereali o legumi, anche come mix.
Anche “la forma” del pane piacentino ha seguito le necessità di abbinamento, di cultura, di ricchezza della tavola. Alcuni pani “piacentini” per nascita, sono stati diffusi dai viandanti e dai pellegrini, diventando altrettanti “chicche” alimentari in altri luoghi.
E’ un po’ come quando la farina di grano tenero 00 (zero zero) o 0 (zero) o 01 (zero uno) ha contaminato la farina di grano duro pura o mista con il grano-saraceno o il grano-turco, quest’ultimi da sempre inseriti nell’impasto di alcuni “panetti” molto intriganti, ancora oggi prodotti e diventati un must come il batarò (panetto schiacciato ovale), il semolino (panino leggero morbido elastico simile alla rosetta), la chisola (un panfocaccia con granella di ciccioli).
Lungo l’asta del fiume Po “piacentino” è bellissimo incrociare luoghi, epoche antiche, ricette per scoprire come tutti i pani piccoli e grandi prodotti in zona hanno una origine strettamente legata alla storia e al legame con il fiume Po.
E’ il caso del batarò, della chisola e della treccia che hanno origine nella zona occidentale piacentina dove la storia longobarda, viscontea e sforzesca, piemontese e ligure si è intrecciata e insediata nei tempi. Mentre il panetto ”semolino”, il pane grosso della “ crocetta”, il pane grosso “del bollino” e ancora la “treccia” sono più tradizionali della area etrusca, longobarda, emiliana, più grassa e verso oriente lungo la via Aemilia.
Il Pane a Piacenza
Piacenza è sempre stata divisa in due per millenni, un po’ per l’invadenza palustre del grande fiume, un po’ per il “dosso” naturale della città, un po’ anche per i dialetti e le lingue diverse.
Il pane grosso ha in generale più una origine collinare-montana, basta oggi vedere la tradizione diversificata fra il “panone” di Sariano, il panone di Groppallo, quello di Bobbio e quello della alta Valceno quasi azimo per l’influenza anche un po’ toscana.
Il pane grosso, il pane “del bollino” erano quelli prediletti dai contadini, pesanti, grossi, più umidi che dovevano durare nel tempo, anche 7 giorni. (nb: ogni settimana una sola volta, il forno comunale o quello del signorotto locale era a disposizione di tutti). Mentre il miccone, la micca o la miccola, la treccia… chiamiamola come vogliamo… per i piacentini è la “treccia”… era il pane grosso bianco più nobile, prevalentemente fatta da farina bianchissima, purissima.
Il pane a Piacenza è di tre tipi, grazie agli Etruschi prima, ai Romani poi.
La tradizione del pane piacentino, ovvero di tutti i pani, si basa sulla doppia o tripla lievitazione oppure sulla minimale lievitazione, utilizzando quasi sempre acqua, ma a volte il latte tiepido per sciogliere il lievito madre da amalgamare nella seconda manipolazione con la farina, un tempo di soli grandi duri antichi e un po’ di grano-turco molto fine, spessissimo pane bianco.Nella treccia e nel semolino si hanno le massime espressioni di una tradizione culinaria a tavola e come merenda “fluviale”: quante fette di pane treccia sono servite per fare dei panini con salumi locali e per spalmare un po’ di burro giallo con sopra lo zucchero (o anche il sale da grandi) come merenda da bambini.
Ma anche come il panino-semolino, piccolo e con pochissima mollica bianca dentro che, tagliato a metà, si toglieva con le mani e si riempiva con fette di coppa piacentina. Altra tradizione era quella di conservare, settimana per settimana, un panetto della panificazione precedente da sciogliere come nuovo lievito madre aggiungendo o acqua o latte (a seconda del pane da fare) tiepida appena salata con un mix di farina (da grandi duri e teneri) per rimpastare una nuova pagnotta che diventava pane grosso, pane con il bollino, treccia o anche crocetta, il pane che riportava tracciata una doppia croce antica che serviva per “avvisare” il panettiere sull’andamento della lievitazione.
Minimo una notte intera a temperatura ambiente, in contenitore di terra cotta o metallo, non all’aria, coperto da un canovaccio pulito e fresco. Il giorno dopo l’impasto andava rifrescato e reimpastato aggiungendo ancora umidità e farina e sale a seconda della quantità necessaria fino ad ottenere una consistenza e morbidezza omogenea, sempre lavorata a mano fino ad avere una superficie liscia o ruvida o segnata a piacere.
Come minimo una altra mezza giornata di riposo e non all’aria, e poi la cottura nel forno.
Il gnocco fritto, altro patrimonio piacentino ma diventato anche molto comune lungo la “via Emilia”, non era un pane antico tradizionale. La sua storia è molto più recente. Il gnocco fritto è una specie di grosso tortello vuoto dentro, un sottile contenitore, cotto in abbondante olio d’oliva (o strutto… come da tradizione del luogo) è una prerogativa assoluta (come la torta fritta, o la bortellina o la piadina) per gustare, anche a tavola e non solo a merenda, i salumi dop affettati.
Si racconta che la sua nascita sia dovuta ad una grande casualità: un avanzo di impasto non ancora lievitato e stirato quasi per fare della pasta, immerso casualmente dentro una pentola con il burro bollente e strutto… (necessario a fare la bortellina, la unica e vera piadina piacentina) si gonfiò immediatamente come un miracolo proprio per la sua “imperfetta” lievitazione e errato dosaggio di farina con l’uso del latte invece che di acqua… Questo forse – più di tante altre strane invenzioni e manipolazione anche di chef stellatissimi (saltuariamente cuochi) – può essere considerato in assoluto in tutta la sponda emiliana, il “vero e unico panino del Po”, con i suoi unici e naturali abbinamenti con coppa piacentina, spalla cotta, culatello, pancetta cotta, pancetta cruda legata, salame stagionato, prosciutto cotto e crudo, fiocco.
Piacenza è sempre stato un territorio dove si sono creati pani diversi, dalle forme e dai metodi assai diversi.
E’ un territorio dove burro, strutto, olio d’oliva, acqua, latte, lievito madre, lievito di birra erano intercambiabili, con le dovute misure, scelte domestiche, contaminazioni. Si ottenevano già in Alto Medioevo (celti e longobardi) pani molto importanti con finalità e consumi assai diversi che pian piano si modificarono (e migliorano) nel tempo senza però stravolgere la tradizione e la tipicità, andando incontro a esigenze nuove. Lo strutto e il burro furono sempre più sostituiti da latte e olio. Anche “la forma” del pane piacentino ha seguito le necessità a tavola, di abbinamento, di cultura, di ricchezza della tavola. La chisola, il batarò, la crocetta, il semolino erano panini “o panicelli” leggeri, anche poco lievitati. La produzione del pane piacentino si basa su una farina macinata a freddo, lenta, su un lievito madre tenuto in vita, rinfrescato e manipolato più volte, su tempo e ambiente che governano una maggiore o minore lievitazione e quindi danno un pane più umido o più morbido, più compatto o con pochissima mollica. E’ l’incrocio fra lieviti e batteri naturali, il rapporto acqua farina, o l’uso del latte o dello strutto, l’impiego di farine da grano duro in purezza o miste, la quantità e la lunghezza della lievitatura che fanno la differenza. La “treccia” lievita di più, il pane grosso molto meno, ma i “panetti” devono lievitare ancor meno. La treccia ha mollica compatta e bianchissima con crosta sottile, mai dura. Il pane grosso ha crosta dura e croccante e spessa, mollica compattissima più umida con buchellatura regolare e leggermente color crema. Il “semolino”, il principe dei panini piacentini, invece è croccante-morbido esternamente, quasi senza mollica all’interno, molto adattabile. Il pane azimo e meno lievitato risulta più digeribile, gonfia meno, quindi se ne mangia meno e le fette sono più sottili. Il pane grosso dura di più nel tempo, resta appetibile per più giorni. Era tradizione fare il pane una volta la settimana. Da qui la “treccia di pane” bianco è ideale per il salume senza ulteriore condimento, le fette erano più spesse con la mollica che diventava un tutt’uno con il salume. Mentre il pane grosso era, e ancora oggi, utilizzato “come panino”: due fette di pane più sottili di quelle della treccia, leggermente imburrato all’interno, contenenti fette di salame stagionato tagliate spesse oppure carne tritata di cavallo o asinina calda o una bistecchina di spalla cotta (come voleva il maestro Verdi). Piacenza amava fare il panino, utilizzando due fette di pane grosso. Questo è il vero panino “del fiume Po”, ad eccezione dell’uso del “semolino”, ma risultava una prelibatezza esclusiva, aristocratica…un panetto piccolo che costava di più ma perfetto – quasi della stessa misura – di una fetta di coppa piacentina.
Giampietro Comolli
Redazione Newsfood.com
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Economista Agronomo Enologo Giornalista
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