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Grandi disuguaglianze: fino a quando? In Italia i milionari sono 205.000

Soldi

Milano, 15 aprile 2013
 
A cura di Benito Sicchiero
Italia 2012: calo del manifatturiero dal 20 al 15%, tre milioni di disoccupati, pil -2,4 per cento, aumento dei suicidi per la crisi.
(ndr: I SUICIDI TRA GLI IMPRENDITORI, secondo lo studio Eures, a “morire di lavoro” sono anche gli imprenditori e i lavoratori autonomi: forza lavoro direttamente esposta all’impatto della
crisi. In dettaglio, nel 2010 si sono contate 192 vittime tra i lavoratori in proprio -artigiani e commercianti- e 144 tra gli imprenditori e i liberi professionisti -sono state 151 nel 2009-,
costituite in oltre il 90% dei casi da uomini.. )

Cifre da Paese in guerra: e infatti è in atto una guerra mossa dai mercati e dalla grande finanza internazionale.  Secondo Boston Consulting Group, lo 0,1% della popolazione mondiale
ha 5 milioni di dollari o più e controlla il 22% della ricchezza globale, in aumento. I milionari controllano il 29% della ricchezza in Nord America e il 38% di quella in Medio Oriente e
in Africa.

Ma anche in Italia i ricchi non se la passano male: i milionari sono 205.000 e crescono (+3,8%), così come si ingrossano i loro portafogli. Negli ultimi venti anni la forbice della
disuguaglianza si è notevolmente allargata: siamo, anche in questa negativa classifica, ai primi posti nel mondo, terzi dopo Stati Uniti e Gran Bretagna; è considerato normale che
un amministratore delegato guadagni 500 volte quanto guadagna un suo dipendente (Olivetti, negli anni ’60, indicava questo limite a 10 volte); la liquidazione di un manager, anche se ha prodotto
non utili ma perdite all’azienda da lui diretta, può arrivare a 250 anni – anni! – di paga di un impiegato. 

Le reti sociali sono deboli e la fiducia verso gli altri, quelli esterni alla ristretta cerchia familiare e amicale, è bassissima. Un Paese che impiega poco e male le sue donne e i suoi
giovani.
Sono dati incontestabili  (primo rapporto sul Benessere equo e sostenibile realizzato dal Consiglio nazionale dell’economia del lavoro e dall’Istat) poco amati da chi ragiona di
pancia.

Gli storici del 2500  si chiederanno, sgomenti e divertiti, come sia stato possibile per gli evoluti e informatissimi cittadini democratici del 20° e 21° secolo – una testa, un voto
– accettare la nuova religione del mercato quale regolatore supremo e inappellabile dell’economia. Il dio mercato, appunto. Che, tra l’altro, si sta pappando altre forme di religione ben
più antiche e blasonate.
Ricordiamo, per citare, che la cattolicissima Polonia, dalla quale è partito il colpo finale all’economia pianificata dell’Urss (comunismo), nei 40 anni di dominazione sovietica ha perso
il 10% dei fedeli, e nei 10 anni successivi di economia di mercato (capitalismo) il 40%.

Non spetta al cronista analizzare le cause dello strapotere del mercato che ha causato simili distorsioni, né tantomeno indicare possibili correttivi, semplicemente sottolineare i fatti.
Dobbiamo dire però che già nei decenni scorsi, quando si alzavano peana alla totale libertà di intraprendere, alla eliminazione di norme e regole (i famosi “lacci e
lacciuoli”) in una società che si andava facendo sempre più complessa, al globalismo, qualche perplessità già nutrivamo sul radioso paradiso dei lavoratori che il
neoliberismo avrebbe portato con sé.

Non intendiamo ingenerare equivoci, e perciò diciamo subito con forza che certa burocrazia serve soltanto a garantire prebende e potere (e tangenti).

Ma eliminare le regole?
Sarebbe come togliere i limiti di velocità in una città. Certo, c’è chi riuscirebbe a raggiungere il centro viaggiando a 120 all’ora: ma di fronte a pochi, quanti sarebbero i
morti e i feriti?

Benito Sicchiero
per Newsfood.com
 

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